di Mario Lombardo

In seguito all’improvvisa decisione di sottoporre al Congresso americano la questione dell’attacco militare contro la Siria, la Casa Bianca ha iniziato in questi giorni una intensa campagna propagandistica per convincere i deputati e i senatori di entrambi gli schieramenti ad esprimere un parere favorevole che spiani la strada ad un nuovo conflitto in Medio Oriente.

Alla Camera e al Senato di Washington rimangono tuttavia molte perplessità ad autorizzare un’aggressione contro il regime di Damasco e solo le trattative in corso renderanno chiara l’eventuale possibilità di trovare un punto di incontro utile per i piani del presidente tra le varie posizioni emerse finora sia in campo repubblicano che democratico.

A decidere l’esito del voto che dovrebbe tenersi non prima di martedì 9 settembre, quando il Congresso riprenderà ufficialmente i lavori dopo la pausa estiva, sarà perciò il grado di convergenza che si riuscirà a raggiungere sul contenuto della risoluzione che verrà alla fine presentata in aula. L’attuale testo della richiesta di autorizzazione dell’amministrazione Obama è stato infatti criticato da una parte dei “congressmen” perché troppo vago e quindi soggetto alle consuete manipolazioni dell’apparato militare con il rischio di un coinvolgimento totale degli Stati Uniti nella crisi siriana.

Questo genere di timori sono condivisi sia dai democratici “progressisti” che dai repubblicani di tendenze libertarie e tradizionalmente su posizioni isolazioniste in merito alle questioni di politica estera riguardanti il proprio paese.

Uomini simbolo di quest’ultima fazione sono attualmente i senatori Ted Cruz del Texas e, soprattutto, Rand Paul del Kentucky, figlio del più volte candidato alla presidenza, Ron Paul, e già osannato dalla destra repubblicana nel recente passato per avere condotto una serie di battaglie libertarie contro l’invadenza del governo federale nelle vite dei cittadini americani.

Più in generale, la leadership repubblicana di Camera e Senato, così come nelle principali commissioni dei due rami del Congresso, dovrà con ogni probabilità fare i conti con un numero consistente di agguerriti parlamentari che vedono con estremo sospetto ogni nuova avventura bellica degli Stati Uniti all’estero e che cercano in tutti i modi di bloccare le iniziative della Casa Bianca.

Il fatto che la destra libertaria repubblicana sia in grado di intercettare un più che giustificato malessere diffuso nella società americana, riuscendo a proporsi come unico baluardo contro una nuova guerra impopolare, è dovuto in ogni caso alla totale assenza di una qualsiasi forma di mobilitazione alla sinistra dello schieramento politico americano contro l’aggressione alla Siria.

Su questa frangia repubblicana, molto vicina ai Tea Party, finiranno così per essere esercitate le maggiori pressioni sia da parte della Casa Bianca che dei media e dell’altra fazione del partito, composta tradizionalmente da deputati e senatori che appoggiano una politica estera aggressiva, in parte per onorare i forti legami che molti di essi mantengono con la potente lobby israeliana negli Stati Uniti.

Anche questi ultimi, tuttavia, stanno mostrando per il momento una certa cautela nei confronti della richiesta dell’amministrazione Obama, in attesa di ottenere chiarimenti e conferme sulla presunta inevitabilità dell’attacco contro la Siria. Su queste esitazioni influisce soprattutto il precedente dell’invasione dell’Iraq di cui i “neo-con” furono gli artefici e che costò enormemente al proprio partito in termini di credibilità e di risultati elettorali.

Con la corsa alle presidenziali del 2016 alle primissime battute, inoltre, a parte i consueti guerrafondai come i senatori John McCain o Lindsey Graham, sono pochi i repubblicani di spicco a volersi compromettere del tutto con un delicatissimo conflitto che potrebbe facilmente sfociare in una guerra devastante con il coinvolgimento di varie potenze regionali e planetarie.

Proprio i due senatori di Arizona e South Carolina sono stati protagonisti questa settimana dell’endorsement più convinto al progetto bellico di Obama in Siria. Dopo un incontro alla Casa Bianca, i falchi McCain e Graham hanno annunciato il loro voto a favore dell’autorizzazione all’uso della forza per “punire” Assad, non prima però di avere ricevuto assicurazioni dal presidente democratico circa un imminente rafforzato impegno americano nell’assistere i “ribelli” siriani.

La coppia repubblicana avrebbe così rinunciato ad un’aggressione a tutto campo contro la Siria, accettando invece un attacco “limitato” che, però, a loro dire dovrebbe comunque danneggiare significativamente le strutture difensive e le capacità di offendere del regime di Damasco.

Il testo definitivo della risoluzione sulla quale si esprimerà settimana prossima il Congresso USA dovrà quindi tenere in considerazione sia i dubbi di coloro che sono disposti a dare il via libera soltanto ad un’operazione di basso profilo sia i più convinti interventisti alla McCain che hanno subordinato un voto favorevole alla prospettiva di assestare un colpo mortale alle forze di Assad. Se queste due interpretazioni sembrano a prima vista inconciliabili, è probabile che la richiesta di autorizzazione all’uso della forza avrà un linguaggio sufficientemente vago per dare mano libera alla Casa Bianca sulla gestione dell’attacco che si sta preparando.

Contraddizioni e divisioni sembrano però ancora marcate per il momento, come dimostra il lavoro della commissione Affari Esteri del Senato, guidata dal democratico Robert Menendez, che sta preparando una bozza con alcuni paletti da imporre all’azione USA, tra cui i divieti di inviare truppe in territorio siriano e di fissare come obiettivo dell’operazione il cambio di regime a Damasco. Questi limiti potrebbero però essere soltanto fumo negli occhi, dal momento che lo stesso pretesto delle armi chimiche è stato fabbricato ad arte per giustificare un intervento che abbia lo scopo preciso di ribaltare le sorti del conflitto in Siria e, quanto meno, facilitare la presa del potere delle formazioni “ribelli” finanziate e armate dall’Occidente e da svariati paesi mediorientali.

Non a caso, ciò che spicca dal dibattito avviato in questi giorni in vista del voto del Congresso è l’accettazione pressoché totale da parte dei politici di ogni orientamento delle conclusioni avanzate dall’amministrazione democratica circa le responsabilità dell’attacco con armi chimiche avvenuto a Ghouta, nei pressi di Damasco, il 21 agosto scorso.

In una serie di incontri avviati nel fine settimana tra membri del governo e del Congresso nell’ambito di un’offensiva propagandista denominata “flood the zone”, l’amministrazione Obama sembra avere convinto quasi tutti i propri interlocutori presentando “prove” della colpevolezza di Assad che consisterebbero in conversazioni intercettate tra esponenti del regime, post apparsi su svariati social media nelle ore successive all’attacco e filmati in gran parte apparsi su YouTube e girati dai “ribelli” stessi. Per stessa ammissione della Casa Bianca, tra le “prove” in proprio possesso non ci sono invece campioni raccolti sul terreno per verificare la presenza effettiva di agenti chimici nell’area colpita due settimane fa.

Nonostante quest’ultima ammissione tutt’altro che trascurabile, come ha spiegato al New York Times il deputato democratico della California, Adam Schiff, il dibattito al Congresso si è ormai spostato dalla questione della effettiva responsabilità di Assad, per nulla dimostrata, a quella delle misure da adottare per rispondere all’attacco di Ghouta.

D’altra parte, anche i membri del Congresso più tiepidi nei confronti di Obama in gran parte non mettono in discussione la versione della Casa Bianca, né tantomeno la presunta autorità morale autoassegnatasi dagli USA per punire il ricorso ad armi chimiche di un qualsiasi paese. Essi, bensì, valutano troppo rischioso un intervento in Medio Oriente che avrebbe effetti destabilizzanti sull’intera regione con conseguenze negative per gli interessi americani o, tutt’al più, fanno riferimento alle tendenze isolazioniste di certi ambienti repubblicani che non vedono alcun vantaggio per il proprio paese nella partecipazione a qualsiasi guerra oltreoceano.

Il tentativo di Obama di ottenere l’approvazione del Congresso per l’aggressione contro la Siria, in definitiva, come dimostra il dibattito in corso non rappresenta altro che un modo per ottenere una qualche apparenza di legittimità per un’operazione illegale basata su fondamenta che sono crollate miseramente già nei giorni scorsi, spingendo il presidente a prendere atto dell’impossibilità di mettere assieme una coalizione sufficientemente ampia a livello internazionale ma anche dell’indisponibilità degli alleati di Assad ad astenersi da ritorsioni in caso di attacco su vasta scala contro Damasco.

Dal tunnel in cui egli stesso si è infilato, perciò, il presidente americano ha deciso di provare ad uscire con una manovra per la quale ha optato con ogni probabilità in fretta e furia, nella speranza di ottenere un qualche mandato per agire senza troppi vincoli pur di fronte ad una vasta opposizione popolare.

La decisione finale sull’eventuale attacco alla Siria e sulla sua portata verrà presa comunque dalla Casa Bianca in base alle circostanze che si verranno a creare nei prossimi giorni sia sul fronte interno che internazionale, come conferma il fatto che la stessa amministrazione Obama continua a non escludere la possibilità di procedere con un’operazione militare unilaterale e palesemente illegale anche in caso di voto contrario del Congresso americano.

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