di Vincenzo Maddaloni

Vista da fuori questa sessantottesima assemblea generale dell’Onu sempre più appare come un fenomeno paranormale. Hassan Rohani, il presidente della repubblica islamica dell’Iran, dalla tribuna più prestigiosa del Palazzo di Vetro - quella dove fino ad un anno fa tuonava il suo predecessore Ahmadinejad - ha cercato di consegnare al mondo un’immagine diversa della nazione: quella di un Paese di grande tradizione, cultura e che vuole solamente la pace.

E’ il medesimo «pragmatico», «moderato» ma ancora poco conosciuto Rohani, eletto tre mesi fa, che con un tweet ha augurato buon anno ebraico «agli ebrei iraniani» e rilasciato dodici prigionieri politici; è sempre lui che ha scritto una lettera aperta dai toni insolitamente morbidi a un grande giornale americano, stavolta il Washington Post: «È finita l'era delle faide di sangue», è il titolo.

Naturalmente, com’era facile prevedere non c’è stato l’atteso incontro all’Onu con il Presidente Usa Barack Obama, soltanto la conferma ufficiale all’apertura al dialogo da parte di Washington. Che è disposto a iniziarlo purché, come ha ricordato il presidente americano, Teheran dopo tante parole mostri le carte, mostri “fatti concreti”.

In effetti, tante sono le parole che l’ayatollah Rohani scrive sul Washington Post. Rammenta al globo che le troppe sfide alla comunità internazionale - terrorismo, estremismo, interferenze militari dall'estero, traffico di droga, cybercrime e, più interessante, «gli sconfinamenti culturali» - hanno enfatizzato l'uso dell'hard power e della forza bruta. Pertanto assicura il Presidente iraniano se prometto di «interagire col mondo in modo costruttivo» non potrò perseguire un interesse senza considerare quello degli altri. Perché - egli spiega - in un mondo iperconnesso «dobbiamo lavorare insieme per superare le insane rivalità e le ingerenze che portano alla violenza. Dobbiamo prestare attenzione all'identità come tema chiave delle tensioni all'interno ed oltre il Medio Oriente».

Può apparire insolito questo richiamo di Hassan Rohani a «prestare attenzione all’identità» per evitare gli «gli sconfinamenti culturali», che sono all’origine dei conflitti in Medio Oriente. In effetti egli evidenzia un punto di rilevanza cruciale nei rapporti dell’Occidente con l’Islam. E cioè che non ci potrà essere futuro per una coesistenza pacifica senza una convergenza sul rispetto dei diritti fondamentali dell’uomo così come si afferma nella dichiarazione universale del 1948 delle Nazioni Unite.

Questo implica però l’accettazione da parte di tutte le culture di quel quadro di valori fondamentali e cioè i diritti dell’uomo, i principi di democrazia, la distinzione tra Stati, confessioni religiose e società che sono elementi ineludibili e non sono negoziabili come previsto appunto dalla Carta delle Nazioni Unite.

Pertanto, siccome le culture e le aree culturali non sono dei monoliti, occorre cogliere le culture nel loro dinamismo interno, sia storico che attuale favorendo il dialogo, la conoscenza, in modo che i diritti fondamentali dell’uomo non appaiano più come dei prodotti occidentali, ma radicati nell’orizzonte culturale e spirituale proprio dell’universo culturale che le Nazioni Unite dovrebbero rappresentare. Infatti la Carta individua i principi essenziali della comunità internazionale degli Stati, volti alla protezione degli interessi fondamentali della stessa.

Naturalmente l’invito di solito è affatto rispettato. Sebbene tali principi, i quali sono parte dello jus cogens, siano contenuti negli artt.1 e 2 della Carta: il mantenimento della pace e della sicurezza internazionali (art.1 par.1) insieme al principio del divieto dell’uso della forza nelle relazioni internazionali (art.2 par.4); la soluzione pacifica delle controversie; il principio dell’uguaglianza dei diritti e dell’autodeterminazione dei popoli (art.1 par.2); il principio della cooperazione che si estende a ogni problema internazionale di «carattere economico, sociale,e culturale» (art.1 par.3); il rispetto dei diritti umani e delle libertà fondamentali (art. 1 par.3).

Dopotutto, la Carta potrebbe essere vista come la Costituzione istituzionale della comunità internazionale, in quanto, accanto ai principi fondamentali, individua gli organi competenti ad esprimere, promuovere e tutelare tali principi nelle relazioni internazionali.

Poiché essa conferisce in particolare al Consiglio di Sicurezza «la responsabilità principale del mantenimento della pace e della sicurezza internazionali» e gli Stati membri delle Nazioni Unite «convengono di accettare ed eseguire le decisioni del Consiglio di sicurezza». Ma è proprio su questo punto che la Carta dimostra tutta la sua inadeguatezza e si capisce perché da molti anni a questa parte si parla della necessità di una riforma dell’Organizzazione delle Nazioni Unite.

Infatti se il diritto di veto aveva un senso in un mondo “bipolare”, ormai questo diritto non ha più fondamento, poiché il mondo di Yalta, che è stato voluto insieme dall’Occidente all’Oriente, è superato. Quella del veto era una delle forme di garanzia del mantenimento dell’ordine che si crea per la pace, dopo la guerra.

Oggi è quasi soltanto uno strumento di potere o di pre-potere in mano ai popoli “eletti” come gli interventi unilaterali anglo-americani in Medio Oriente stanno a dimostrare. Non a caso l’aspetto centrale della riforma delle Nazioni Unite è costituito dal tema del ruolo, delle competenze e delle procedure del Consiglio di Sicurezza al quale la Carta ha malauguratamente affidato il compito di occuparsi dei problemi politici.

Come si è visto bene in più di una occasione, esso agisce sempre con un collaudato pragmatismo secondo il quale il Consiglio di Sicurezza deve «schierarsi in favore dell’azione» e non impedirla. L’azione, ovviamente, rimane nelle mani della superpotenza americana, secondo la quale se esso non dovesse concedere la sua autorizzazione “all’azione”, il Consiglio dimostrerebbe la sua inconsistenza, irrilevance e quindi potrebbe essere comodamente scavalcato.

Si tenga a mente che il mondo musulmano con il suo miliardo e trecento milioni di fedeli non è rappresentato nel Consiglio di Sicurezza mentre i “cristiani” hanno quattro seggi (il quinto è cinese).

Insomma il vertice delle Nazioni Unite replica un po’quelle scene viste nei film in costume dove gli aristocratici celebrano i loro riti mentre fuori infuria la rivoluzione. Sicché più questa discrasia si acutizza, e più diventa complicato “l’ammodernamento” dell’Onu, con il gran giubilo di chi non vuole cambiare sostanzialmente le cose (Usa, Russia, Cina in prima linea, ma anche Regno Unito e Francia).

Così l’Onu continua ad essere considerato come una realtà artificiale avulsa dal mondo reale nel quale la “verità” sui fatti non è un dato esterno che nasce attraverso il dibattito e l’ascolto delle varie posizioni, ma fa parte della volontà di colui che ha i mezzi per costruirla.

Gli Stati Uniti appunto, che non hanno bisogno di essere informati sulla “verità” dei fatti, perché sono loro che informano le Nazioni Unite sulla “verità” dei fatti. O meglio le mettono di fronte al fatto compiuto com’è avvenuto con l’invasione dell’ Afghanistan, dell’Iraq, l’elenco potrebbe continuare.

Va pure detto che in questi giorni all’Onu non tutti si fidano del presidente Rohani, sebbene egli abbia scritto nella famosa lettera al Washington Post che «il mondo è cambiato»; «la politica internazionale non è più un gioco a somma zero», ma «un'arena multidimensionale dove spesso coesistono cooperazione e competizione».

A mantenere lo scenario incandescente ci pensa il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu che, da Gerusalemme ha ordinato alla delegazione israeliana all’Assemblea dell’Onu di comportarsi esattamente come accaduto negli ultimi anni: alzarsi e abbandonare la sala quando a prendere la parola è l’Iran. Non importa se stavolta a parlare sia Rohani e non sia Ahmadinejad. E non importa se da Teheran arrivano chiari segnali di distensione. Per il premier israeliano, il discorso di Rohani all’Onu è solo “cinico”.

Sicché non si riesce a capire se - dopo questo scambio di promesse tra l’ Iran e gli Usa - ci attende una nuova apocalisse o un futuro di pacifica coesistenza, di là di stabilire chi siano i vinti e i vincitori. Compito dell’Onu sarebbe di verificarlo poiché abbiamo già l’elenco dei danni provocati quando con la forza si vogliono imporre modelli senza rispettare la cultura dell’Altro.

Insomma, sul nucleare iraniano, sulla guerra siriana, sui mille e uno conflitti che dividono il mondo tra Nord e Sud, diventa indispensabile - per meglio capire - ascoltare e diffondere la voce (non solo ufficiale) dell’altro versante.

Nell’éra di internet dovrebbe essere molto più facile. Non è così. Perché l’Occidente si blocca quando dalla tribuna dell’Onu il presidente Obama assicura che se la trattativa sul nucleare iraniano dovesse andare a buon fine, «tutto nelle relazioni tra i nostri Paesi potrebbe cambiare». Ma se il prossimo inquilino della Casa Bianca fosse un Repubblicano si continuerebbe a pensarla allo stesso modo?

La superpotenza non si pone problemi al riguardo, poiché impone le sue regole quando vuole e dove vuole, Nazioni Unite incluse. In questo scenario com’è visto il «pragmatico», «moderato» Hassan Rohani? «Da parte sua alcuna reale concessione sul nucleare e repressione di chi si oppone alla teocrazia», stigmatizza Raymond Tanter, (membro del National Security Council staff durante l’amministrazione Reagan), in un articolo pubblicato da Foreign Policy. E conclude: «Sebbene Ahmadinejad e Rohani abbiano stili diversi, la sostanza è la stessa». Quanto basta agli europei e ai giapponesi per restare rannicchiati sotto l’”ombrello” statunitense, con i loro territori ancora pieni di basi Usa. Quel che sta fuori è per loro solo un sinistro folklore.

www.vincenzomaddaloni.it







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