di Fabrizio Casari

L’annuncio è arrivato Domenica notte, quando alle 22,35 Barak Obama, attraverso i network televisivi statunitensi, ha diramato una comunicazione presidenziale. Sabato 23 Novembre, l’accordo sul nucleare iraniano è stato raggiunto. Dopo anni di scontri, reciproche minacce ed univoche sanzioni, mesi di trattative e giornate difficili, è stato infatti siglato un accordo tra Stati Uniti, Russia, Cina, Gran Bretagna, Francia, Germania con la Repubblica Islamica dell’Iran. Il governo Rohuani s’impegna a bloccare al 5% l’arricchimento dell’ uranio, a neutralizzare quello già arricchito al 20% e a bloccare ogni attività sul plutonio.

L’intesa prevede l’allentamento parziale delle sanzioni economiche (che dovrebbe portare ad un miglioramento dei conti iraniani per circa 8 miliardi di dollari) a fronte dell’impegno persiano ad interrompere l’arricchimento dell’uranio sopra la soglia del 5 per cento. Dal canto loro, le potenze firmatarie sì sono impegnate a non imporre sanzioni all’Iran (ad eccezione di quelle sulle esportazioni di petrolio, che vengono mantenute). Nell’accordo si prevede una verifica nel giro di sei mesi dell’applicazione da parte iraniana di quanto disposto.

L’accordo riguarda la proliferazione nucleare di Teheran, ma i contorni e le conseguenze dello stesso vanno ben oltre lo specifico. E’ indubbiamente un successo per l’Amministrazione Obama, che ha dovuto affrontare una fortissima opposizione da parte sia dei suoi alleati in Medio Oriente - primo fra tutti Israele - che internamente, nei media e nel Congresso, che alle pressioni della potentissima lobby ebraica sono notoriamente ultrasensibili.

L’opposizione all’accordo raggiunto da parte di Israele era del resto risaputa, così come quella alla Conferenza di Ginevra 2 sulla Siria; il timore israeliano è che un accordo con l’Iran e con la Siria ridurrebbe sensibilmente le ipotesi di conflitto regionale e, con ciò, gli USA potrebbero rivedere in chiave minore il loro impegno militare diretto e i finanziamenti ai loro alleati. Tel Aviv, che ha nella macchina bellica la sua unica fonte di centralità politica (che riesce a mantenere attraverso i generosi finanziamenti statunitensi) rischia di veder ridursi il volume dei dollari in arrivo.

Ma, soprattutto, Israele vede ridurre il suo peso specifico, la sua capacità di esercitare pressioni sulla politica estera statunitense in Medio Oriente e Golfo Persico e questo è certamente il pericolo maggiore che ha davanti. D’altra parte il governo di ultradestra di Tel Aviv non ha mai nascosto la sua ostilità verso Barak Obama e la sua Amministrazione allo stesso modo in cui era chiaramente entusiasta dell’Amministrazione Bush.

I "No" dichiarati di Netanyahu sia all’accordo sullo smantellamento delle armi chimiche siriane in cambio dello stop all’opzione dell’intervento come a quello sul nucleare iraniano, non hanno infatti - come in passato - orientato gli Stati Uniti, oggi ansiosi di volgere verso l’Asia lo sguardo sui mercati e la sfida sulla leadership globale.

Non è certo in discussione il ruolo di bastione degli interessi occidentali nella regione che Israele rappresenta, ma una sua riduzione d’influenza sugli Stati Uniti può, dal punto di vista dell’establishment ebraico, esporre Israele ad una maggiore vulnerabilità nell’area. Un nuovo asse tra Beirut, Damasco e Teheran riporta indietro di diversi mesi le serenità israeliane. Proprio per questo Netanyahu ha ribadito con forza sia il dissenso israeliano dall’accordo con l’Iran che l’autonomia operativa di Tel Aviv davanti a minacce, vere o così considerate che siano.

Ma lo stesso premier israeliano sa perfettamente che un ingresso iraniano nel consesso internazionale priva parzialmente Israele della sua principale arma propagandistica. Ovvio che le rassicurazioni statunitensi non dovrebbero lasciare adito a dubbi circa il mantenimento del legame storico con Israele, ma un governo razzista e guerrafondaio come quello in carica a Tel Aviv avverte ogni dialogo politico con il mondo arabo e musulmano una minaccia diretta o indiretta al suo dominio

La firma ha quindi indubbiamente un valore geopolitico di assoluta rilevanza. Da parte degli Stati Uniti il tentativo è stato sì quello di agire a favore dei suoi interessi diretti ma, nello stesso tempo, di garantire in qualche modo i suoi alleati nella regione, ovvero le monarchie del Golfo e il governo israeliano. A parziale garanzia della monarchia saudita, oltre l’impegno a vigilare sull’esclusivo uso a carattere civile dell’uranio di Persia, resta il mantenimento delle sanzioni sulle esportazioni petrolifere, che consentono a Ryad di mantenere inalterata la quota di greggio destinata alle esportazioni e priva di sostanziale concorrenza con l’Iran.

D’altra parte, la pretesa della famiglia reale di garantirsi tramite le armi statunitensi la leadership del mondo sunnita e porsi come primo e più importante livello di contenimento dell’Islam sciita, sul quale Teheran esercita una leadership ormai trentennale, aveva già subito delle importanti battute d’arresto con i contrasti tra le monarchie del Golfo e Washington nella gestione prima delle cosiddette “primavere arabe” e poi nel negoziato sulla crisi siriana. Giova ricordare che i sauditi seppero dell’accordo tra USA e Russia che fermava l’escalation militare attraverso la CNN. Non proprio quel che si potrebbe definire una fonte diretta dell’Amministrazione.

Del resto, per Washington il ruolo di Ryad nell’area è ormai difficilmente sostenibile: l’ipertrofica ambizione della famiglia reale si scontra con la realtà di un piccolo regno a modello medievale, fatto di miliardari privi di ogni senso delle proporzioni prima ancora che di vision politica. Inoltre, ogni giorno che passa il controllo sul petrolio saudita si riduce d’importanza, dal momento che le recenti conferme alla vastità enorme dei giacimenti di gas in territorio statunitense rendono oggettivamente meno strategico l’approvvigionamento petrolifero dal Golfo Persico. Di contro, il mantenimento di un impegno militare così massiccio, adeguato alle ambizioni saudite, diventa ogni giorno meno sostenibile sul piano dell’impegno finanziario.

La firma dell’accordo avrà ovviamente ripercussioni anche all’interno dell’Iran, dove si vanno parzialmente riducendo i margini di manovra dell’ala dura del regime. Crisi economica e riduzione del consenso, insieme all’insostenibilità delle sanzioni, hanno prodotto nelle urne un nuovo gruppo dirigente che sta progressivamente spostando il Paese in direzioni inedite. Il 1979 è storia vecchia. Il Grande Satana, se serve, può trasformarsi in un buon interlocutore.

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