di Mario Lombardo

Le proteste e gli scontri di piazza che hanno caratterizzato buona parte degli ultimi anni in Thailandia sono tornati in questi giorni ad occupare le prime pagine dei giornali in seguito alle nuove manifestazioni indette dall’opposizione che chiede le dimissioni del governo guidato dalla premier Yingluck Shinawatra. Le più recenti tensioni a Bangkok sono state provocate dai tentativi, sia pure falliti, da parte dell’Esecutivo di implementare una legge sull’amnistia e alcune modifiche costituzionali, ma dimostrano soprattutto come le divisioni nel paese siano state tutt’altro che risolte dall’accordo tra le fazioni rivali dell’establishment thailandese che, dopo le elezioni del 2011, aveva consentito l’insediamento della sorella dell’ex primo ministro in esilio, Thaksin Shinawatra.

Già nella giornata di domenica, più di centomila manifestanti erano scesi per le strade della capitale chiedendo la fine del “regime di Thaksin”, denunciando come quest’ultimo sarebbe dietro ad ogni decisione dell’attuale premier. Lunedì, poi, gli oppositori del governo hanno fatto irruzione nell’edificio che ospita il ministero delle Finanze, occupandolo cosi come è successo martedì con quelli dei Trasporti, dell’Agricoltura e del Turismo.

Un confronto senza conseguenze particolarmente gravi con le forze di polizia è stato infine registrato di fronte al ministero dell’Interno, mentre già lunedì la premier Yingluck aveva esteso le leggi speciali sulla sicurezza a tutta Bangkok dopo che esse erano state adottate per alcuni quartieri della metropoli fin dallo scorso mese di agosto, quando erano giunti i primi segnali di possibili agitazioni.

La legge sulla Sicurezza Interna consente alla polizia, tra l’altro, di imporre il coprifuoco, chiudere strade, restringere l’accesso a determinati edifici e impedire l’utilizzo di dispositivi elettronici in aree specifiche della città. Il capo del governo, in ogni caso, ha per ora fatto appello alla calma e al dialogo, assicurando che le forze di sicurezza non faranno ricorso alla violenza.

A scatenare la nuova instabilità in Thailandia era stato nel mese di ottobre il tentativo da parte del partito di governo - Pheu Thai (Partito per i Thailandesi) - di fare approvare una legge molto controversa che avrebbe garantito l’immunità giudiziaria sia all’ex premier Thaksin sia ai responsabili della durissima repressione delle proteste anti-governative organizzate dai suoi sostenitori nel maggio del 2010 che fece più di 90 morti e migliaia di feriti. Tra i beneficiari dell’amnistia avrebbe dovuto esserci anche il predecessore di Yingluck Shinawatra, il leader del Partito Democratico ora all’opposizione, Abhisit Vejjajiva, accusato di avere ordinato la strage di manifestanti.

Questa legge aveva superato agevolmente la Camera bassa del parlamento thailandese ma è stata successivamente bocciata al Senato in seguito alle proteste esplose sia tra i sostenitori dell’opposizione (preoccupati per il possibile ritorno in patria di Thaksin dopo cinque anni di esilio per sfuggire ad una condanna per corruzione) sia tra coloro che appoggiano il governo, denominati “Camicie Rosse” e ufficialmente affiliati all’organizzazione extra-parlamentare “Fronte Unito per la Democrazia contro la Dittatura” (UDD), insoddisfatti delle modifiche apportate ad un provvedimento che originariamente avrebbe dovuto escludere dall’amnistia i responsabili dei fatti del 2010.

Le proteste dell’opposizione sono poi aumentate dopo che entrambi i rami del Parlamento di Bangkok, dove il partito Pheu Thai detiene la maggioranza, ai primi di novembre avevano approvato un cambiamento alla costituzione per rendere il Senato interamente elettivo. 73 dei 150 membri che compongono la Camera alta del Parlamento thailandese, infatti, vengono attualmente selezionati da una commissione formata da esponenti di vari organi dello stato, mentre solo i restanti 77 seggi sono elettivi.

Il 20 novembre la Corte Costituzionale ha comunque deciso di bocciare le modifiche volute dal governo, respingendo però le altre istanze dell’opposizione che chiedevano la dissoluzione del partito Pheu Thai, responsabile di avere presentato una misura anti-costituzionale. La sentenza del più alto tribunale thailandese ha così scontentato l’opposizione nelle piazze e in parlamento, alimentando le proteste di questi giorni.

Ad animare le manifestazioni contro il governo di Yingluck sono le stesse forze politiche dell’opposizione, così come sezioni dell’apparato militare e formazioni di destra vicine alla monarchia thailandese. Nelle strade, inoltre, è riconoscibile soprattutto l’elettorato che fa capo al Partito Democratico, composto in gran parte dalla borghesia della capitale.

Il leader dei manifestanti è infatti un recente ex parlamentare dello stesso Partito Democratico, Suthep Thaugsuban, il quale ha lasciato il proprio seggio per guidare le proteste di piazza, anche se martedì è stato emesso un mandato d’arresto nei suoi confronti.

Ulteriori tensioni si annunciano anche in seguito alla mozione di sfiducia presentata dall’opposizione in Parlamento sulla quale si voterà giovedì, nonché dalla presenza a Bangkok di gruppi pro-Thaksin che per il momento si sono però impegnati a non affrontare i propri rivali.

Lo scontro politico in atto in Thailandia trae origine almeno dal colpo di stato che rovesciò il gabinetto di Thaksin nel settembre del 2006 mettendo fuori legge il suo partito, Thai Rak Thai, con il quale il discusso imprenditore multi-miliardario aveva vinto due elezioni consecutive nel 2001 e nel 2005.

Il golpe militare era stato in sostanza il risultato dell’aspro confronto all’interno della classe dirigente thailandese, con Thaksin che veniva percepito come una seria minaccia dai tradizionali centri di potere, sia per le sue tendenze sempre più autoritarie sia in seguito all’adozione di un programma di limitate riforme sociali destinate alla sua base elettorale - i ceti rurali più poveri nel nord del paese - che includevano sussidi ai contadini e un sistema di assistenza sanitaria gratuita.

Dopo la deposizione e l’esilio di Thaksin, nel 2007 i militari imposero una nuova costituzione che però non impedì nelle elezioni di dicembre un’altra vittoria dei sostenitori dell’ex premier, questa volta con il Partito del Potere Popolare (PPP).

L’affermazione del partito pro-Thaksin provocò ben presto nuove agitazioni nel paese, con gli oppositori di quest’ultimo (“Camicie Gialle”) che scesero a loro volta nelle strade fino ad ottenere la rimozione di due primi ministri del PPP e lo scioglimento anche di questo partito. Il nuovo golpe giudiziario spianò così la strada alla conquista del potere da parte del leader del Partito Democratico, Abhisit, che alla fine del 2008 venne nominato primo ministro grazie all’aiuto dei militari e alla defezione di alcuni parlamentari del PPP.

Come già anticipato, quest’ultimo governo sarebbe stato al centro di ulteriori proteste popolari, durate svariate settimane e guidate dai militanti vicini all’ex premier Thaksin, fino al massacro del maggio 2010 a Bangkok. Il voto dell’anno successivo avrebbe poi confermato la popolarità sia di Thaksin tra i ceti più disagiati che, soprattutto, delle politiche progressiste promosse in campagna elettorale dalla sorella Yingluck in un paese segnato da profonde disuguaglianze sociali.

Con la situazione economica della Thailandia in rapido deterioramento, tuttavia, le iniziative promesse sono apparse da subito difficili da mantenere per il nuovo governo, mentre il più o meno tacito accordo con l’opposizione, i vertici militari e la monarchia, che ha consentito la nascita del governo Yingluck, è entrato anch’esso in crisi.

Il fallimento delle due iniziative parlamentari del partito al potere nelle scorse settimane ha così fatto riesplodere definitivamente le tensioni latenti nel paese, minacciando altri gravi scontri e una possibile nuova svolta autoritaria nel tormentato paese del sud-est asiatico.

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