di Michele Paris

La morte il primo giorno dell’anno del tre volte governatore dello stato di New York, Mario Cuomo, è avvenuta poche ore dopo l’inaugurazione ufficiale del secondo mandato alla stessa carica del figlio 57enne, Andrew. La parabola politica dei due leader italo-americani è estremamente significativa dell’evoluzione del Partito Democratico negli Stati Uniti, dal declino del progressismo negli anni Ottanta all’ascesa di Bill Clinton nel decennio successivo fino all’abbraccio definitivo del neo-liberismo nel nuovo millennio.

La valanga di commenti e necrologi che hanno occupato le prime pagine dei giornali americani nei giorni scorsi ha evidenziato nella carriera di Cuomo sia la sua difesa dei valori “liberal” di stampo rooseveltiano in un’America trascinata sempre più a destra dalla rivoluzione reaganiana sia le esitazioni e i dubbi di un politico perennemente a un passo dal grande salto sulla scena nazionale.

Figlio di immigrati campani stabilitisi prima nel New Jersey e poi nel Queens, a New York, Mario Matthew Cuomo aveva vissuto sulla propria pelle le discriminazioni dovute alle sue origini, nonostante un invidiabile curriculum universitario.

Dopo la laurea in legge ed essere puntualmente ignorato dai grandi studi di Manhattan, Cuomo esercitò a Brooklyn difendendo principalmente piccoli proprietari minacciati dagli espropri del municipio, conquistando una certa popolarità che convinse i leader democratici a candidarlo alla carica di vice-governatore dello stato di New York nel 1974.

Cuomo fu però sconfitto già nelle primarie dalla futura vice-governatrice, Mary Anne Krupsak, ma il superiore di quest’ultima, Hugh Carey, l’anno dopo lo avrebbe nominato segretario di stato per poi spingerlo a candidarsi a sindaco della città di New York nel 1977, sia pure nuovamente senza successo.

Cuomo accettò poi di correre nel 1978 a fianco dello stesso governatore Carey, quando la sua vice decise di sfidarlo nelle primarie democratiche. Quattro anni più tardi, Carey si ritirò e Mario Cuomo riuscì a perfezionare la sua scalata al vertice della politica dello stato.

In tre mandati da governatore acquisì una vasta popolarità in tutto il paese, difendendo, almeno a parole, il ruolo del governo nella correzione degli squilibri creati dal mercato. Dopo avere accarezzato più volte l’idea di correre per la Casa Bianca e rifiutato la nomina a giudice della Corte Suprema offerta dal presidente Clinton, Cuomo finì sconfitto nel 1994 dall’allora semi-sconosciuto repubblicano George Pataki nel tentativo di conquistare un quarto mandato consecutivo da governatore di New York.

L’apice della notorietà negli Stati Uniti Cuomo la raggiunge nel 1984, quando tenne il discorso principale alla convention democratica di San Francisco. Il suo intervento fu un attacco frontale alle politiche reaganiane, con il celebre riferimento alle “due città” per descrivere le disuguaglianze e la povertà crescenti nel paese.

Le elezioni di quell’anno registrarono una pesantissima sconfitta per il candidato democratico, Walter Mondale, ma la popolarità di Cuomo crebbe sensibilmente fino a fargli valutare una candidatura alla presidenza sia nel 1988 sia nel 1992.

In entrambi i casi, tuttavia, Cuomo finì per rinunciare, non tanto, come hanno raccontato i giornali d’oltreoceano in questi giorni, per i pregiudizi circa le sue origini italiane o la scarsa preparazione sulle questioni di politica estera, quanto a causa dei cambiamenti stessi avvenuti nel panorama politico americano di quegli anni.

La sua immagine di “liberal” irriducibile - oppositore della pena di morte e sostenitore del diritto all’aborto - poco si confaceva alle inclinazioni dei grandi finanziatori democratici, decisi a liquidare ciò che rimaneva delle politiche del New Deal e del progressismo degli anni Sessanta.

I due candidati democratici nel 1984 e nel 1988 - rispettivamente il già ricordato Mondale e Michael Dukakis - soccombettero infatti a Reagan e George H. W. Bush in maniera molto netta dopo avere condotto campagne elettorali su piattaforme “liberal”. Il ritorno alla Casa Bianca del Partito Democratico avvenne invece solo con lo spostamento al “centro”, ovvero a destra, di Bill Clinton.

L’attitudine di “sinistra” di Mario Cuomo fu peraltro in buona parte più retorica che reale, come dimostra il pragmatismo evidenziato dal governatore già durante il suo primo mandato. Cuomo ereditò un deficit di quasi 2 miliardi di dollari dalla precedente amministrazione e non esitò a proporre una legge di bilancio fatta di tasse e tagli ai servizi pubblici, alienando subito le organizzazioni sindacali che lo avevano appoggiato.

L’esperienza politica di Mario Cuomo è servita in ogni caso da lezione al figlio Andrew, al fianco del padre come consigliere fin dai primi anni Ottanta. L’attuale governatore di New York si è infatti costruito un’immagine di politico “centrista”, disposto tra l’altro a collaborare con i repubblicani e ben deciso a perseguire politiche di rigore.

Non a caso, d’altra parte, piuttosto che il padre, Andrew Cuomo ha sempre considerato Bill Clinton il suo vero mentore e all’interno dell’amministrazione di quest’ultimo ha ricoperto vari incarichi nel dipartimento per l’Urbanistica.

Per Andrew Cuomo, in definitiva, come per tutta la classe dirigente democratica e l’élite “liberal” della generazione successiva al defunto ex governatore di New York, le uniche politiche progressiste oggi implementabili sembrano essere rimaste quelle di genere, come conferma l’impegno del governatore per l’approvazione dei matrimoni gay nel suo stato in parallelo, ad esempio, con gli attacchi ai dipendenti del settore pubblico.

Nella storia pubblica di Mario Cuomo, così come del figlio e successore Andrew, si intravede dunque il riflesso stesso della traiettoria declinante del progressismo americano in concomitanza con la crisi del capitalismo, incapace da tempo di rispondere a qualsiasi istanza di autentica riforma sociale.

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