di Mario Lombardo

Il primo ministro conservatore australiano, Tony Abbott, è sopravvissuto lunedì a una mozione di sfiducia presentata da membri del suo stesso Partito Liberale, sempre più preoccupati per il crollo di consensi del partito di governo. Il premier, al potere da nemmeno 18 mesi, è riuscito per ora a sventare la minaccia alla propria leadership, ma la crisi politica in cui il suo gabinetto continua a dibattersi appare tutt’altro che risolta.

A scatenare l’ennesima resa dei conti all’interno di un partito di governo in Australia era stata la recente batosta patita dai liberali nelle elezioni per il rinnovo del parlamento locale nello stato del Queensland. Qui, il partito di Abbott aveva perso la maggioranza in maniera clamorosa dopo che appena tre anni prima aveva rifilato una pesantissima sconfitta al Partito Laburista.

Il voto nel Queensland era stato però solo l’ultimo segnale del tracollo del governo, evidenziato già da un altro rovescio elettorale a dicembre nello stato di Victoria e, soprattutto, dalla crescente opposizione nel paese alle politiche di rigore volute da Abbott.

In particolare, gli elettori australiani che avevano punito il governo laburista per avere perseguito a sua volta politiche anti-sociali di impronta neo-liberista si sono rapidamente resi conto della natura dell’Esecutivo premiato nelle elezioni del 2013. Abbott, infatti, alla presentazione del suo primo bilancio in parlamento aveva fatto marcia indietro su tutte le principali promesse elettorali.

Ad esempio, su richiesta degli ambienti del business australiano e internazionale, il governo liberale aveva proposto una serie di tagli ai programmi pubblici destinati alle fasce più deboli della popolazione, in particolare in ambito sanitario e dell’educazione, dopo avere escluso iniziative di questo genere durante la campagna elettorale.

La legge di bilancio rimane così in buona parte bloccata fin dal maggio dello scorso anno al Senato, dove il governo non dispone di una maggioranza, in seguito all’ostruzionismo del Partito Laburista e di altre formazioni minori, costrette ad agire in questo modo per la diffusa ostilità popolare verso le misure volute da Abbott.

L’immediato abbandono da parte del governo anche di minime iniziative a difesa delle classi più disagiate è stato determinato dal rapido deterioramento delle condizioni dell’economia australiana, a sua volta colpita duramente dal rallentamento dell’economia globale e, in particolar modo, di quella cinese, nonché dal crollo delle quotazioni dei materiali ferrosi e del carbone, le cui esportazioni avevano alimentato nel recente passato un certo boom di crescita nel paese del continente oceanico.

Di fronte a questo scenario e a un sempre più probabile rovescio elettorale nel 2016, una parte significativa del Partito Liberale, assieme a potenti sezioni del business e dei media, ha orchestrato una sorta di mozione di sfiducia ai danni di Tony Abbott, per sostituirlo alla guida del governo e dello stesso partito, così da provare a invertire la tendenza.

Una simile mozione, se approvata, si risolve in quello che nel sistema politico australiano viene definito “leadership spill”, cioè una dichiarazione che la leadership di un partito è vacante e che quindi il nuovo occupante di questa posizione deve essere scelto tramite una votazione dei parlamentari dello stesso partito. Nel caso del partito di maggioranza, l’eventuale cambio al suo vertice coincide con un cambio alla guida del governo.

La mozione contro Abbott è stata presentata lunedì da due parlamentari dell’ala destra del partito ma è stata sconfitta con 61 voti contrari e 39 a favore. La “vittoria” del primo ministro è stata possibile probabilmente anche grazie alle manovre messe in atto nei giorni scorsi dai suoi fedelissimi, concretizzatesi tra l’altro nell’anticipazione di un giorno del voto in modo da limitare la progressiva emorragia di consensi all’interno del partito.

Nel disperato tentativo di rimanere al suo posto, Abbott avrebbe fatto una serie di promesse ai suoi compagni di partito. Per cominciare, il premier ha assicurato che la sua amministrazione d’ora in avanti prenderà decisioni in maniera “più collegiale”, mentre concretamente potrebbero arrivare misure simboliche di stampo populista, tra cui un taglio alle tasse per le piccole imprese e qualche agevolazione fiscale per le famiglie.

Dopo il voto, un Abbott visibilmente abbattuto ha provato a dichiarare in diretta TV che la lotta intestina dei giorni scorsi è ormai “alle spalle”, ma la realtà politica australiana si è vista consegnare un premier fortemente indebolito e seriamente esposto a possibili nuove sfide interne nel prossimo futuro.

Innanzitutto, i voti favorevoli alla rimozione di Abbott sono stati più numerosi di quanto il premier auspicava e quest’ultimo si ritroverà ora a fronteggiare un’agguerrita opposizione interna pronta a lanciare una nuova sfida per la leadership del partito al primo passo falso del governo.

A questo proposito, molti osservatori in Australia hanno descritto il voto di lunedì come una prova generale per un prossimo cambio al vertice del partito e per testare i possibili equilibri tra i liberali. Gli oppositori interni di Abbott, d’altra parte, non avevano nemmeno proposto un proprio candidato ufficiale per sostituire il premier nel caso la mozione di sfiducia fosse andata a buon fine.

Secondo i media australiani, il più probabile sfidante di Abbott potrebbe essere l’attuale ministro per le Comunicazioni, Malcolm Turnbull, ex banchiere e milionario strettamente legato agli ambienti finanziari del paese, sconfitto di misura dal premier sei anni fa nella corsa alla guida del Partito Liberale. Un’altra contendente potrebbe essere poi il ministro degli Esteri, Julie Bishop, la quale ha però finora escluso di essere interessata alla posizione occupata da Abbott, a fianco del quale si è presentata lunedì alla votazione tenuta nella capitale, Canberra.

Le sorti del primo ministro Abbott rivelano in ogni caso la grave crisi non solo del suo governo ma dello stesso sistema rappresentativo australiano, e non solo. Ciò è determinato dalla profonda ostilità della maggior parte della popolazione nei confronti di una politica che, in parrallelo con il peggioramento delle condizioni dell’economia, non è in grado di fornire risposte o soluzioni diverse da quelle viste finora un po’ ovunque e che consistono nel far pagare il prezzo del salvataggio del capitalismo a lavoratori, giovani, pensionati e disoccupati.

La crisi del sistema parlamentare, osservabile in Australia nel rapidissimo declino di un governo che aveva trionfato alle elezioni meno di un anno e mezzo fa, è dunque la conseguenza delle pressioni che vengono esercitate sulle classi politiche nazionali dai rappresentanti delle élites economiche e finanziarie per implementare, di fronte alla crisi economica globale, misure socialmente devastanti contro il volere della grande maggioranza degli elettori.

Lo stesso processo in atto oggi nel Partito Liberale australiano aveva interessato anche quello Laburista negli anni scorsi, nel tentativo di arrestare – inutilmente – un crollo di consensi dovuto ancora una volta all’applicazione di politiche ultra-liberiste. In questo partito teoricamente di centro-sinistra si erano verificati due cambi al vertice, uno nel 2010 con Julia Gillard che, grazie anche alle manovre di Washington, aveva rimpiazzato il primo ministro Kevin Rudd e l’altro nel 2013 con quest’ultimo che aveva scalzato la stessa Gillard alla vigilia del voto.

Dietro alla precaria posizione dei primi ministri australiani vi sono infine anche le frustrazioni che attraversano gli ambienti di potere, sia in patria sia a livello internazionale. Questi ultimi non si fanno infatti scrupoli nel muovere critiche accese o nell’orchestare campagne di discredito nei confronti di quei governi giudicati incapaci di portare a compimento politiche che si traducono in assalti alle condizioni di vita della popolazione, sia pure nascoste dietro la definizione apparentemente innocua o benevola di “riforme”.

Nel caso attuale dell’Australia, le posizioni dei poteri forti sono espresse dai media “mainstream”, con ad esempio i giornali del colosso editoriale Fairfax che appoggiano più o meno apertamente un cambio alla guida del paese a favore del ministro Turnbull, mentre il gruppo di proprietà di Rupert Murdoch continua per il momento a sostenere il premier Abbott.

La crisi del sistema esclude comunque qualsiasi cambiamento di rotta significativo, se non per il peggio, visto che gli stessi leader laburisti australiani, pur mantenendo a livello ufficiale posizioni critiche verso il governo per ragioni di opportunità politica, hanno già più volte ammesso che ciò che attende lavoratori e classe media saranno ancora a lungo le conseguenze di “decisioni difficili” e “impopolari”.

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