di Mario Lombardo

L’imminente voto parlamentare in Gran Bretagna per autorizzare il governo Cameron ad allargare i bombardamenti aerei contro l’ISIS/Daesh al territorio siriano ha nuovamente evidenziato le profonde divisioni che attraversano il Partito Laburista sotto la guida del nuovo leader di “sinistra”, Jeremy Corbyn. La decisione presa lunedì di lasciare libertà di coscienza ai propri deputati nel voto sulla guerra in Medio Oriente ha mostrato però soprattutto la vera natura dello stesso Labour, la cui distanza incolmabile dai suoi potenziali elettori ha assicurato un altro successo alle forze di destra in Gran Bretagna.

La capitolazione della leadership laburista appare ancora più clamorosa se si considera che il Partito Conservatore non disponeva probabilmente dei voti sufficienti per fare approvare la risoluzione che consentirà ai caccia britannici di operare raid aerei sulla Siria. Cameron, infatti, dopo avere sfruttato gli attentati di Parigi del 13 novembre scorso per rispolverare la propria agenda militarista in Medio Oriente, aveva affermato che un voto su tale questione alla Camera dei Comuni sarebbe stato chiesto solo se ci fosse stata la certezza di avere i numeri necessari per l’approvazione.

Sul fronte laburista, Corbyn si era detto fermamente contrario alle bombe sulla Siria ma questa posizione è apparsa da subito in contrasto con quella sostenuta dalla maggioranza dei membri del suo governo-ombra, orientati a votare a favore della risoluzione di guerra avanzata dal primo ministro.

Per cercare di imporre la propria volontà sul resto del partito, venerdì scorso il leader laburista aveva pubblicato una lettera aperta nella quale ribadiva la sua contrarietà ai bombardamenti in Siria. Il primo ministro non era stato in grado di portare argomenti convincenti a favore dell’allargamento dell’impegno militare di Londra e, nella giornata di domenica, Corbyn aveva poi rivendicato il diritto del leader a imporre la linea del partito su una questione così delicata.

Queste iniziative di Corbyn avevano però sollevato un’ondata di polemiche tra le fazioni del Labour che vedono con estremo sospetto il nuovo leader del partito. Lo stesso Corbyn, verosimilmente, dietro le quinte stava peraltro già preparando la resa, sotto forma di un accordo negoziato con il numero due del partito, Tom Watson, e il ministro-ombra degli Esteri, Hillary Benn, per lasciare libertà di coscienza ai deputati laburisti.

A nulla era servita anche la presentazione di una recentissima consultazione tra circa 100 mila iscritti al partito che mostrava come il 75% di essi si fosse dichiarato contrario alla guerra in Siria. Le riunioni del governo-ombra e dei membri del Parlamento laburisti si sono concluse alla fine con l’esito auspicato dalla destra del partito, smaniosa di dare la propria approvazione a una nuova avventura bellica della Gran Bretagna.

In cambio, Corbyn ha ottenuto la possibilità di emettere una patetica quanto inutile dichiarazione che stabilisce la contrarietà alla guerra in Siria come posizione ufficiale del Partito Laburista. In maniera altrettanto misera, Corbyn ha indirizzato a Cameron una richiesta per spalmare su due giorni il dibattito sulla risoluzione di guerra. Il primo ministro Conservatore ha però respinto l’istanza, limitandosi ad allungare di qualche ora la discussione in aula, la quale sarà seguita da un voto dall’esito scontato già nella serata di mercoledì.

Secondo i giornali britannici, tra i 10 e i 15 deputati della maggioranza dovrebbero votare contro la risoluzione presentata dal loro stesso leader. Defezioni di questa portata avrebbero messo a serio rischio l’approvazione, ma, grazie alla resa di Corbyn, addirittura un centinaio di deputati laburisti potrà correre in soccorso del governo e garantire il passaggio della risoluzione di guerra.

L’esito del dibattito interno al Labour ha inoltre provocato non pochi malumori tra gli stessi sostenitori di Corbyn, sia nel partito sia tra le organizzazioni che gravitano attorno ad esso, come il potente sindacato Unite e il gruppo pacifista Stop the War Coalition, di cui il leader laburista è stato presidente fino a poche settimane fa.

Com’è accaduto in varie altre occasioni in questi primi mesi della dirigenza Corbyn, il neo-leader laburista ha dunque voluto nuovamente evitare lo scontro con l’opposizione interna al partito, formata in buona parte da seguaci dell’ex premier e potenziale criminale di guerra, Tony Blair.

La volontà di Corbyn di sottrarsi a una sorta di resa dei conti interna e di cedere sostanzialmente a una manciata di deputati guerrafondai profondamente screditati e che godono di una relativa popolarità solo sui media ufficiali, può apparire a molti incomprensibile. Infatti, a settembre Corbyn era stato eletto con una maggioranza schiacciante dai simpatizzanti e dagli iscritti al Labour proprio per le sue credenziali di “sinistra”.

Una volta assunta la guida del partito, però, Corbyn ha tutt’al più difeso in maniera blanda le sue posizioni, privilegiando il compromesso con una maggioranza interna ostile e pronta fin da subito a boicottare la nuova leadership. La prova di questa strategia perdente si è avuta con le nomine dei membri del governo-ombra, tra i quali figurano numerosi nomi di irriducibili oppositori di Corbyn e della sinistra del partito.

Nel caso del voto sulla guerra in Siria, forte di un consistente mandato popolare, Corbyn avrebbe indubbiamente potuto imporre la decisione di votare contro il governo Conservatore, costringendo i suoi rivali interni a sfidare il loro stesso partito con una mossa politicamente rischiosa.

La stessa minaccia, prospettata fin dalla sua elezione, di adottare una qualche iniziativa per rimuovere Corbyn sarebbe stata inoltre difficilmente percorribile, visto che l’opposizione interna al Labour avrebbe dovuto assumersi la responsabilità di portare a termine un golpe contro un leader eletto a larghissima maggioranza allo scopo di allineare il partito alle posizioni dei Conservatori.

Quella andata in scena lunedì a Londra è quindi una pesante sconfitta per la leadership di Jeremy Corbyn ma, soprattutto, dimostra l’illusione, avanzata da quest’ultimo, di poter trasformare dall’interno il Labour in un partito autenticamente progressista dopo un lunghissimo processo degenerativo segnato dall’asservimento al capitalismo britannico e alle sue ambizioni imperialiste.

In verità, contro Corbyn si erano da subito schierate forze formidabili, a cominciare dall’apparato militare e della sicurezza nazionale, giunto a minacciare apertamente la ribellione nel caso di un futuro successo elettorale laburista che avrebbe portato il nuovo leader del partito alla guida del governo britannico.

Come si è visto, anche all’interno del Labour stesso l’opposizione alla linea politica teorica della nuova leadership continua a essere fortissima, ma Corbyn ha mostrato da subito scarso interesse a fare l’unica mossa che avrebbe potuto garantire una minima possibilità di successo al suo progetto politico, ovvero fare appello alla mobilitazione di centinaia di migliaia di elettori che lo hanno scelto per guidare il partito dopo il culmine della deriva destrorsa negli anni del blairismo.

Se Corbyn e i suoi sostenitori hanno perciò evitato per il momento la guerra civile all’interno del Labour attorno all’autorizzazione della campagna militare in Siria, l’arrendevolezza mostrata ancora una volta dalla nuova leadership potrà fare ben poco per contratare il persistente dominio sul partito dei suoi oppositori di destra.

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