di Michele Paris

La parabola di Donald Trump a circa due mesi dall’inizio delle primarie Repubblicane per la Casa Bianca non sembra essere ancora in declino nonostante le previsioni e le speranze di molti dentro e fuori il suo partito. Anzi, dopo un momento di flessione, in questi giorni il miliardario imprenditore newyorchese è tornato nettamente in testa ai sondaggi, capitalizzando la persistente inconsistenza evidenziata da quasi tutti i suoi rivali alla ricerca della nomination.

La competizione interna al Partito Repubblicano in questa tornata elettorale ha già di gran lunga superato i limiti della decenza, con i candidati che stanno facendo a gara nel sollecitare i sentimenti più retrogradi di una fetta di elettorato molto ristretta, e dominata dal fondamentalismo cristiano, com’è appunto quella che partecipa solitamente alle primarie del “Grand Old Party”.

Inoltre, in un clima di fortissime tensioni sociali e con le sempre più evidenti conseguenze del militarismo americano - tra cui l’aumento della minaccia terrorista percepita - le sezioni più reazionarie della classe dirigente USA hanno rispolverato l’arma della retorica populista, così come della demagogia e del nazionalismo, favorendo la concentrazione da parte dei candidati Repubblicani su una manciata di temi apparentemente cruciali per la salute della società, primo fra tutti quello del presunto pericolo di un’immigrazione denunciata come fuori controllo.

L’altra questione che sta modellando queste prime fasi della corsa alla nomination in casa Repubblicana è poi la generale freddezza, per non dire ostilità, nei confronti dei politici legati all’establishment di Washington. In questo quadro, la fortuna raccolta almeno per ora da individui come Donald Trump risulta perciò un po’ meno sconcertante.

Il successo di Trump sta comunque preoccupando non poco i vertici del Partito Repubblicano, in ansia non tanto per le sue posizioni ultra-reazionarie se non esplicitamente fasciste, quanto per l’impossibilità a farsi eleggere per un candidato che mostri in manierà così aperta tutto il suo disprezzo per le minoranze etniche, per le donne e, in fin dei conti, per tutti coloro che guadagnano meno di lui.

Che quello Repubbicano sia il partito dei ricchi reazionari, in prevalenza bianchi, è ampiamente risaputo, ma le inclinazioni ideologiche che lo contraddistinguono non devono essere proclamate troppo apertamente per conservare quel poco di legittimità che rimane agli occhi degli elettori.

Come ha confermato un articolo apparso questa settimana sul New York Times, i leader repubblicani si trovano ad affrontare un dilemma per quanto riguarda l’approccio a Trump. Da un lato appare evidente il nervosismo per il possibile successo nelle primarie di un candidato che, nel caso dovesse correre per la Casa Bianca nelle elezioni del prossimo novembre, protrebbe causare una pesantissima sconfitta per il partito. Le conseguenze negative dell’effetto Trump potrebbero farsi sentire non solo sulle presidenziali ma anche sul voto per il Congresso e a livello locale, annullando i progressi fatti segnare dai repubblicani in questi anni.

D’altro canto, però, in pochi sembrano disposti ad assumersi il rischio di condurre un attacco frontale contro Trump, vista la sua predisposizione allo scontro, nonché all’insulto puro e semplice, che gli ha portato finora evidenti benefici invece di metterlo in difficoltà. Non solo, un’eventuale campagna anti-Trump dall’interno del partito rischierebbe di alienare ancor più l’elettorato Repubblicano e accentuare la corsa già in atto verso candidati ritenuti “outsider”.

L’analisi del Times ha rivelato come un vero e proprio senso di panico sia ormai diffuso soprattutto tra i senatori che dovranno difendere i propri seggi in stati tradizionalmente in equilibrio tra Repubblicani e Democratici. Questo è il caso, ad esempio, dell’Illinois, del New Hampshire, della Pennsylvania, del Wisconsin e dell’Ohio.

In quest’ultimo stato, uno “stratega” del partito ha ricordato il precedente delle elezioni del 1964, quando a correre per la Casa Bianca per i Repubblicani fu l’ultra-conservatore Barry Goldwater, considerato su posizioni troppo estreme per attrarre un numero sufficiente di consensi. In quell’anno, infatti, Lyndon Johnson vinse con una maggioranza schiacciante e i Repubblicani furono trascinati nel baratro da Goldwater, perdendo ad esempio ben 36 seggi alla Camera dei Rappresentanti.

Il timore che la nomination possa andare a Trump fa correre brividi lungo la schiena a molti tra i vertici Repubblicani soprattutto per le potenziali ripercussioni sul fronte dei finanziamenti. Il senatore della South Carolina, Lindsey Graham, anch’egli candidato alla Casa Bianca, ha spiegato come un paio di sostenitori molto generosi gli abbiano manifestato recentemente la loro preoccupazione per la resistenza mostrata da Trump nei sondaggi, sollecitando il partito ad agire e lasciando probabilmente intendere che una sua vittoria nelle primarie potrebbe determinare uno stop alle donazioni per i candidati ad altre cariche.

Uno dei punti di forza di Trump sembra essere d’altra parte la possiblità da parte sua di sostenere il costo della campagna elettorale grazie alle proprie ingenti finanze e alle donazioni degli elettori normali. Ciò ha permesso al 69enne magnate di attaccare i suoi rivali nella corsa alla nomination su un punto molto delicato, vale a dire la loro dipendenza da finanziatori miliardari che esercitano un’influenza eccessiva sulla politica di Washington.

Ad ogni modo, in un recentissimo sondaggio diffusamente citato negli Stati Uniti, il gradimento di Trump è passato dal 24% al 27% nell’ultimo mese. A fare le spese della sua risalita è stato soprattutto l’ex neurochirurgo di colore, Ben Carson, altro “estraneo” della politica che fino a poche settimane fa era appaiato con Trump al primo posto nelle intenzioni di voto dei potenziali elettori delle primarie.

Carson sembra avere pagato non tanto una serie di commenti denigratori nei confronti degli immigrati, sostanzialmente ribaditi in forma più blanda durante una sua recente visita ai rifugiati siriani in Giordania, quanto la totale estraneità alle questioni di politica estera in un momento in cui le crisi internazionali sono tornate a trovare ampio spazio nel dibattito politico USA.

Per i giornali d’oltreoceano, ciò avrebbe favorito i due senatori di estrema destra, Marco Rubio della Florida e Ted Cruz del Texas, attestati secondo la stessa recente indagine attorno al 16-17%. Pur facendo parte del circolo più esclusivo dell’élite politica americana - il Senato di Washington, appunto - entrambi sono riusciti a costruirsi un’immagine artefatta di candidati anti-establishment, cavalcando la tendenza che sembra caratterizzare l’attuale ciclo elettorale.

Più che altro, comunque, la competizione Repubblicana indica il persistere di una certa volatilità, determinata indubbiamente dal fatto che l’inizio delle primarie resta ancora relativamente lontano, ma anche dalla sostanziale assenza di una vera e propria base elettorale su cui possono contare i vari candidati.

Visto anche il carattere reazionario e talvolta apertamente razzista delle loro posizioni, nessuno degli aspiranti alla Casa Bianca può vantare un seguito popolare consistente. Gli eventuali progressi evidenziati nei sondaggi, ancorché riferiti a campioni ristretti di un bacino elettorale altrettanto limitato, sono dovuti così a pochi ricchissimi finanziatori e allo spazio decisamente sproporzionato rispetto al loro spessore che trovano sui media “mainstream”.

Il dato forse più significativo riscontrato finora, e che smentisce almeno in parte la tendenza appena descritta, è infine il flop della campagna di Jeb Bush. Considerato precocemente come il favorito d’obbligo per la nomination, l’ultimo rampollo di una delle famiglie più screditate d’America a correre per la Casa Bianca secondo gli ultimi dati raccoglierebbe un misero 5% tra gli elettori Repubblicani.

Pur essendo il candidato meglio finanziato tra quelli in corsa, almeno per ora l’ex governatore della Florida sembra scontare non solo il peso del suo cognome ma, anche e soprattutto, la fondamentale incapacità di rendere esteriormente accettabile un progetto politico ormai logoro e un passato non esattamente trascorso a combattere i poteri forti che decidono le sorti della “democrazia” americana.

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