di Michele Paris

In un discorso pubblico tenuto a Praga nella primavera del 2009, l’allora neo-presidente americano Obama promise un impegno per la riduzione delle armi nucleari in tutto il pianeta, in modo da mettere fine alla persistente “mentalità da Guerra Fredda”. Quasi otto anni più tardi e a quattro mesi dall’uscita definitiva dalla Casa Bianca, però, non solo sono proprio gli Stati Uniti ad avere aggravato le tensioni internazionali, ma la sua amministrazione sembra avere dato un impulso come poche altre alle capacità nucleari americane.

Un altro voltafaccia di Obama in questo ambito riguarda anche la politica del cosiddetto “primo colpo” nucleare, la strategia per la quale una potenza dotata di ordigni atomici si riserva la possibilità di attaccare per prima con questi ultimi un paese nemico.

Nei mesi scorsi, alcuni giornali americani avevano previsto una dichiarazione formale da parte di Obama con la quale avrebbe ufficializzato la rinuncia da parte degli Stati Uniti a questa dottrina preventiva. Con questa presa di posizione, l’arsenale nucleare USA sarebbe stato attivato solo in risposta a un attacco atomico di un altro paese.

Questa mossa era stata presa in considerazione dal presidente uscente per lasciare una qualche eredità “pacifista” di un’amministrazione tra le più guerrafondaie, se non la più guerrafondaia in assoluto, della storia americana. Pur essendo fortemente simbolica, la decisione sul “primo colpo” nucleare non avrebbe fatto che ratificare in maniera ufficiale una posizione tenuta tacitamente da tutti i governi USA dalla fine della Seconda Guerra  Mondiale.

Un articolo pubblicato questa settimana dal New York Times, che cita anonimi membri dell’amministrazione Obama, rivela invece come, dopo un dibattito interno, il presidente abbia alla fine deciso di evitare di pronunciare una rinuncia alla dottrina del “primo colpo” nucleare, mantenendo così l’ambiguità che ha prevalso finora e, quindi, l’opzione di attaccare preventivamente un paese nemico con questo genere di armi.

La ricostruzione del Times propone uno scenario nel quale esponenti di spicco del gabinetto e consiglieri del presidente hanno fatto pressioni per mantenere lo status quo in materia di politica nucleare. Le ragioni principali sono legate ufficialmente al timore che paesi alleati, come il Giappone e la Corea del Sud in Asia, o i paesi Baltici in Europa, possano interpretare il gesto di Obama come un segno di debolezza, fino a ritenere di non essere coperti dal cosiddetto “ombrello nucleare” americano.

Gli alleati in Europa occidentale, come aveva spiegato un commento del Washington Post a metà agosto, temono invece che le loro dottrine nucleari e quelle degli Stati Uniti possano finire per divergere e creare problemi di “coordinamento” nel caso di una crisi internazionale.

A insistere maggiormente affinché Obama rinunci all’abbandono formale della strategia del “primo colpo” nucleare è stato il segretario alla Difesa, Ashton Carter. Il capo del Pentagono sembra avere sottolineato, tra l’altro, che una decisione in questo senso giungerebbe nel momento sbagliato, viste le tensioni esistenti con Russia e Cina.

Identiche obiezioni, anche se espresse in maniera più cauta, caratterizzano le posizioni del segretario di Stato, John Kerry, e di quello dell’Energia, Ernest Moniz, al cui dipartimento è affidata la responsabilità del mantenimento dell’arsenale nucleare americano.

All’interno dell’amministrazione Obama sembra essere avvenuto comunque un acceso dibattito sulla questione. Malgrado le posizioni dei responsabili della politica estera e dell’apparato militare, in molti vicino al presidente sollecitavano una rinuncia ufficiale all’opzione del “primo colpo”.

Questi ultimi non sono comunque animati da spirito pacifista, ma ritengono piuttosto che un’azione di questo genere da parte di Obama contribuirebbe almeno in parte a riabilitare gli Stati Uniti dopo oltre un decennio di guerre e crimini vari. Per costoro, in sostanza, un’eventuale dichiarazione che ripudi il “primo colpo” nucleare sarebbe un utile esercizio di pubbliche relazioni, senza di fatto intaccare il potenziale offensivo della macchina da guerra americana.

Uno dei principali consiglieri di Obama in materia di armi nucleari, l’ex capo di Stato Maggiore, generale James Cartwright, lo aveva ammesso indirettamente in un articolo firmato per il New York Times lo scorso mese di agosto. Cartwright ricordava infatti come gli USA possano contare su mezzi di “persuasione”  formidabili anche senza ricorrere alle armi nucleari. Tra di essi elencava l’arsenale convenzionale e informatico, ma anche il presunto vantaggio tecnologico, la forza diplomatica e alleanze con paesi di tutti i continenti.

Se l’inversione di rotta sul nucleare di Obama sembra apparentemente non cambiare nulla nell’ambito della dottrina militare a stelle e strisce e, infatti, non ha suscitato particolare interesse tra i media americani né, tantomeno, tra quelli esteri, essa ha in realtà dei risvolti estremamente preoccupanti.

Innanzitutto, la notizia si inserisce in un quadro segnato dalle ripetute provocazioni americane nei confronti di paesi rivali dotati di armi nucleari, come Russia e Cina, che hanno fatto salire alle stelle il rischio di uno scontro militare diretto. Nel primo caso vanno ricordati almeno il golpe di estrema destra in Ucraina, che ha deposto un presidente filo-russo democraticamente eletto, e il costante processo di militarizzazione dei paesi NATO in Europa orientale.

Per quanto riguarda la Cina, invece, l’attenzione degli USA è rivolta in particolare ai mari del sud-est asiatico, dove vengono alimentate in maniera deliberata le dispute territoriali con gli altri paesi della regione e condotte missioni di “pattugliamento” in aree contese ma controllate da Pechino.

In definitiva, il passo indietro di Obama sull’uso dichiarato delle armi nucleari risponde a una logica oggettiva, determinata dagli sforzi della classe dirigente americana di invertire il proprio declino ed esercitare il controllo sulle aree cruciali del globo, contenendo parallelamente la crescita e l’influenza di nuove potenze emergenti.

In altre parole, la notizia riportata dal New York Times sulla probabile mancata rinuncia alla politica del “primo colpo” nucleare implica che gli Stati Uniti non intendono fare alcun passo indietro rispetto all’attuale atteggiamento aggressivo nei confronti di Russia e Cina, ma anche di Iran o Corea del Nord. Anzi, per difendere i propri interessi strategici, i vertici politici e militari americani affermano di essere pronti a far ricorso preventivamente anche alle armi più distruttive in loro possesso.

Che questa situazione sia stata favorita dal presidente Obama può apparire singolare, viste le promesse di combattere contro la proliferazione del nucleare all’inizio del suo mandato alla presidenza. In realtà, come ha dimostrato uno studio della Federazione degli Scienziati Americani, Obama è il presidente che ha smantellato il minor numero di testate nucleari a partire dalla fine della Guerra Fredda.

Non solo, mentre in svariate uscite pubbliche proclamava la necessità di abbandonare “la logica della paura” e di costruire un mondo “senza armi nucleari”, come in una recente storica visita a Hiroshima, Obama ha lanciato un colossale piano per l’ammodernamento dell’arsenale atomico americano che, secondo alcuni studi indipendenti, dovrebbe costare qualcosa come mille miliardi di dollari nei prossimi tre decenni.

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