di Michele Paris

La strage di soldati siriani compiuta dalle forze aree americane nel pomeriggio di sabato è stata subito condannata dalla Russia come un atto intenzionale, volto con ogni probabilità a far saltare la tregua precariamente in vigore nei cinque giorni precedenti e, di fatto, a favorire l’offensiva dello Stato Islamico (ISIS/Daesh). Gli Stati Uniti hanno sostenuto invece che l’attacco si è trattato di un “errore”, ma la situazione militare consolidata nella città colpita - Deir ez-Zor - e le contraddizioni interne al governo e ai vertici delle forze armate americane sull’approccio al cessate il fuoco rendono improbabile la versione ufficiale proposta da Washington.

Le bombe sulle postazioni dell’esercito regolare di Damasco hanno ucciso più di 60 soldati e fatto un centinaio di feriti. Subito dopo il blitz, gli uomini dell’ISIS/Daesh sono andati all’assalto nel tentativo di guadagnare terreno in una città che da tempo tengono sotto assedio.

Il ministero della Difesa russo ha reagito molto duramente al bombardamento, non solo definendolo intenzionale ma accusando apertamente gli Stati Uniti di sostenere l’ISIS/Daesh. La rappresentanza russa all’ONU ha poi richiesto la convocazione d’urgenza del Consiglio di Sicurezza, previsto per la serata di domenica a New York. I toni provenienti da Mosca indicano un serio aggravarsi delle tensioni tra le due potenze e il rischio sempre più concreto di un confronto militare diretto con gli Stati Uniti in Siria.

L’ambasciatrice americana, Samantha Power, da parte sua ha deciso sabato di parlare subito alla stampa e, dopo avere espresso il dispiacere del suo governo per il bombardamento delle postazioni siriane, si è concentrata su una serie di accuse contro il governo di Mosca. Secondo l’ambasciatrice USA, quest’ultimo sarebbe responsabile di una mossa politica “cinica e ipocrita” nel chiedere la convocazione del Consiglio di Sicurezza, visto che la stessa iniziativa non era mai stata presa in considerazione dopo gli attacchi contro i civili siriana da parte del regime di Assad.

Domenica, anche il segretario di Stato americano, John Kerry, ha attaccato la Russia per non avere fatto pressioni su Assad, ritenuto responsabile del mancato ingresso in Siria degli aiuti umanitari. Kerry non ha fatto alcun riferimento al massacro del giorno precedente e la sua versione sullo stato della tregua è stata del tutto parziale, visto che gli stessi “ribelli” non hanno ancora garantito la sicurezza dei convogli umanitari che dovrebbero attraversare le aree del paese sotto il loro controllo.

L’ambasciatore russo al Palazzo di Vetro, Vitaly Churkin, sempre sabato ha invece fatto notare come sia altamente sospetto il tempismo con cui gli Stati Uniti hanno colpito l’esercito siriano. Il blitz è avvenuto cioè a un paio di giorni dall’ipotetico inizio della collaborazione militare tra USA e Russia contro l’ISIS/Daesh in Siria, come previsto dalle condizioni della tregua.

La considerazione del diplomatico russo va probabilmente al cuore del problema relativo alla tregua stessa e all’insolubilità della crisi siriana. Nei giorni precedenti si erano infatti verificate numerose violazioni delle condizioni del cessate il fuoco da parte delle forze “ribelli” appoggiate dagli Stati Uniti e dai loro alleati mediorientali.

Le iniziative dei gruppi dell’opposizione armata anti-Assad indicavano la problematicità nell’implementazione di un punto decisivo della tregua e che già aveva fatto naufragare l’accordo raggiunto tra Mosca e Washington a inizio anno per ridurre il livello di violenza in Siria. Secondo la recente intesa, gli USA avrebbero cioè dovuto garantire la separazione tra “ribelli” moderati, o presunti tali, e le formazioni con tendenze fondamentaliste.

Una volta raggiunto questo obiettivo, Stati Uniti e Mosca avrebbero avviato operazioni congiunte dirette contro le forze estremiste. Essendo evidentemente queste ultime inestricabilmente legate ai gruppi “ribelli” presentati come accettabili dall’Occidente, la separazione è apparsa però impossibile da mettere in atto se non al prezzo di decimare il fronte anti-Assad.

L’attacco contro le postazioni siriane a Deir ez-Zor è giunto anche dopo alcuni giorni durante i quali i giornali americani e non solo avevano descritto nel dettaglio lo scontro tra il Dipartimento di Stato e il Pentagono sulla tregua sottoscritta con la Russia.

Svariati alti ufficiali dell’esercito USA avevano messo in dubbio l’opportunità di collaborare con la Russia in Siria, con più di uno che si era detto tutt’altro che certo del rispetto del dettato della tregua anche in caso di sviluppi positivi dopo una settimana dall’entrata in vigore.

Lo stesso segretario alla Difesa, Ashton Carter, sarebbe intervenuto nel dibattito interno all’amministrazione Obama assumendo una ferma posizione contro il collega del dipartimento di Stato, John Kerry, protagonista dei colloqui che avevano portato all’intesa con Mosca.

L’opposizione dei militari al cessate il fuoco, che è sconfinato nell’insubordinazione aperta al potere civile, e l’episodio di sabato sera a Deir ez-Zor mette ulteriormente in discussione la strategia siriana della Casa Bianca. Non solo l’amministrazione Obama sembra essere sopraffatta dalla contraddizione tra gli sforzi per rimuovere Assad tramite forze integraliste e il tentativo di prendere tempo per stabilizzare la situazione sul campo dialogando con la Russia. La strage di soldati siriani di sabato legittima anche un interrogativo sul livello di controllo che il presidente sia in grado di esercitare sui propri vertici militari.

Che le bombe sull’esercito siriano siano state deliberate per far crollare l’accordo con la Russia è dunque possibile e i fatti di sabato vanno anche collegati a un altro evento accaduto venerdì in Siria. In un villaggio nel nord del paese, gruppi islamisti armati del cosiddetto Libero Esercito della Siria (FSA) avevano costretto alla fuga uomini delle Forze Speciali americane che avrebbero dovuto operare al loro fianco.

Filmati postati in rete hanno documentato l’accaduto, con i “ribelli” che insultavano pesantemente i militari statunitensi a causa proprio della decisione dell’amministrazione Obama di sottoscrivere un accordo con la Russia sul cessate il fuoco in Siria.

Per molti, l’attacco contro l’esercito di Assad di sabato potrebbe essere stato allora un messaggio indirizzato ai “ribelli” circa la volontà da parte della coalizione guidata da Washington di colpire direttamente il regime di Damasco, nonostante il valzer diplomatico con Mosca.

In definitiva, al di là delle prese di posizione ufficiali degli Stati Uniti e delle dichiarazioni di professionisti degli interventi “umanitari”, come l’ambasciatrice USA all’ONU Samantha Power, da Washington non vi è nessuna volontà a lavorare per la pace in Siria né a collaborare seriamente con le forze che si battono realmente contro il terrorismo.

La popolazione siriana, martoriata da oltre cinque anni di una guerra sanguinosa, continuerà così ancora a lungo a rimanere ostaggio delle contraddizioni e delle mire strategiche di un governo americano incapace di uscire dalla logica distruttiva che caratterizza la propria politica estera.

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