di Michele Paris

L’uccisione di un 43enne di colore a Charlotte, da parte di un agente di polizia della città del North Carolina, ha fatto riesplodere in un’ondata di proteste tutte le tensioni che attraversano la società americana, provocando l’immediata repressione di quelle stesse forze di sicurezza che continuano a fare vittime innocenti tra le classi più disagiate, al di là del colore della loro pelle.

Le ricostruzioni dei fatti che hanno preceduto la morte di Keith Lamont Scott sono contrastanti e finora la polizia di Charlotte si è rifiutata di rendere pubblica la registrazione effettuata dalla telecamera che gli agenti sono obbligati a indossare durante il servizio.

Scott era in ogni caso nella sua auto in un parcheggio di un edificio residenziale dove stava aspettando uno dei suoi figli di ritorno da scuola quando un’auto della polizia si è avvicinata, scambiandolo probabilmente per un'altra persona su cui pendeva un ordine di arresto.

Secondo alcuni testimoni e i suoi famigliari, Scott aveva tra le mani un libro quando è sceso dall’auto, mentre per la polizia si trattava di una pistola. A questo punto, l’agente Brentley Vinson, anch’esso afro-americano, ha sparato a Scott, uccidendolo. Se anche la versione della polizia dovesse corrispondere al vero, la situazione non giustificava l’uso di un’arma da fuoco da parte dell’agente, visto che in North Carolina è consentito portare con sé una pistola senza che sia necessario nasconderla.

Secondo il conteggio tenuto dal sito killedbypolice.net, Keith Lamont Scott è stato la vittima della polizia numero 840 dall’inizio dell’anno e la sessantesima nel solo mese di settembre. Nel 2015, i morti per mano della polizia americana erano stati, sempre secondo la stessa fonte che si basa sui resoconti dei media, 1.207, quasi cento in più rispetto all’anno precedente.

Sulle proteste scoppiate a Charlotte nella serata di martedì hanno evidentemente influito questi numeri e, in particolare, altre due uccisioni registrate nella settimana precedente in circostanze apparentemente inspiegabili.

Il 13 settembre, a Columbus, nell’Ohio, il 13enne Tyree King è stato ucciso dalla polizia mentre impugnava una pistola giocattolo; due giorni più tardi a Tulsa, in Oklahoma, come ha mostrato un filmato diffuso dalla polizia, Terrence Crutcher di 45 anni è stato colpito fatalmente dopo essere stato fermato con la sua auto e mentre si avvicinava a quest’ultima con le mani alzate. Entrambe le vittime erano di colore.

A Charlotte, le proteste contro l’uccisione di Keith Lamont Scott sono sfociate in un’aperta rivolta, con i manifestanti che hanno lanciato oggetti contro le forze dell’ordine, bloccato le strade e distrutto le vetrate di alcuni negozi.

Gli eventi seguiti all’esplosione della rabbia della popolazione hanno ricalcato quelli a cui si era assistito tra il 2014 e il 2015 a Ferguson, nel Missouri, e a Baltimora, nel Maryland, dopo l’uccisione da parte della polizia di altri due afro-americani, il 18enne Michael Brown e il 25enne Freddie Gray.

Mercoledì, il governatore della North Carolina, Pat McCrory, ha cioè dichiarato lo stato di emergenza “su richiesta del capo della polizia della contea di Mecklenburg”, di cui fa parte Charlotte. Contestualmente è stata mobilitata la Guardia Nazionale della North Carolina e un contingente di agenti di polizia è giunto dalle località vicine per aiutare le forze locali a contenere le proteste. Negli scontri nella notte tra mercoledì e giovedì, inoltre, un manifestante è rimasto gravemente ferito da colpi di arma da fuoco che la polizia ha però escluso di avere sparato.

In parallelo alla repressione, il metodo utilizzato dalla classe dirigente americana per calmare gli animi in queste occasioni consiste nel ricorso ai leader della comunità nera, inclusi esponenti del governo di Washington. Questi ultimi vengono puntualmente chiamati nelle città interessate dai disordini, come in questo caso a Charlotte, per lanciare pubblici appelli alla riconciliazione con le autorità e ad avere fiducia nelle indagini e nel normale corso della giustizia.

Questa strategia appare particolarmente insidiosa, poiché punta a mantenere il dibattito sulla violenza della polizia americana nei confini della questione razziale. Tutte o quasi le reazioni delle personalità pubbliche che sono intervenute dopo i fatti di Charlotte, tra cui la candidata alla presidenza Hillary Clinton, hanno sostanzialmente sostenuto che la brutalità della polizia è un problema da ricondurre al razzismo degli agenti e dei vertici delle forze dell’ordine.

Il solo caso di Charlotte smentisce tuttavia questa interpretazione, anche se in altre circostanze il razzismo può chiaramente giocare un ruolo più o meno importante. L’agente che ha ucciso martedì Keith Lamont Scott, così come il capo della polizia appartengono infatti alla stessa comunità afro-americana. Questa realtà non ha dunque impedito l’ennesimo assassinio immotivato e a sangue freddo da parte della polizia.

Inoltre, mentre le sparatorie che sfociano in decessi di cittadini di colore trovano in genere maggiore spazio sui media nazionali e internazionali, le statistiche compilate da varie fonti indicano che almeno la metà delle vittime della polizia negli Stati Uniti sono bianchi.

Piuttosto, un altro elemento accomuna la gran parte dei morti per mano della polizia, cioè il fatto che essi sono quasi sempre poveri o provenienti da situazioni di disagio economico e famigliare, dovute all’aggravarsi delle condizioni materiali di vita in un paese segnato da un aumento fuori controllo delle disuguaglianze sociali.

Ferme restando le singole vicende che caratterizzano i vari episodi di violenza con protagonisti gli agenti di polizia, in generale questi ultimi agiscono di fatto come una forza incaricata di controllare, contenere e reprimere le tensioni e i segnali di rivolta sociale tra le classi più povere.

Il fatto che le minoranze etniche negli Stati Uniti siano costrette a fare i conti in misura maggiore con situazioni di disagio contribuisce a spiegare la ragione per cui gli afro-americani sono in proporzione più esposti alla brutalità della polizia.

Mentre l’intervento dei “pacificatori” di professione e le autorità civili promettono giustizia per le uccisioni come quella di martedì a Charlotte, i numerosissimi precedenti di questi anni suggeriscono il contrario. Sia pure in assenza di statistiche ufficiali, alcune ricerche giornalistiche danno l’idea del grado di impunità di cui godono i poliziotti-assassini.

Un’indagine di qualche mese fa della testata on-line Huffington Post ha rivelato ad esempio come nel 2014 e nel 2015 nessun agente sia stato condannato per omicidio a fronte di un totale di oltre 2.300 uccisioni. Dal 2005 solo 13 poliziotti hanno ricevuto una sentenza di condanna negli Stati Uniti. Per il New York Daily News, invece, nonostante le oltre 1.200 uccisioni documentate, nel 2015 appena 7 agenti sono stati oggetto di incriminazioni, evidentemente risultate in tutti i casi nel proscioglimento.

Praticamente a nulla sono servite infine le misure promesse e talvolta adottate dai vertici delle forze di polizia e dallo stesso governo. L’esempio più clamoroso è quello delle telecamere installate sulle auto della polizia o indossate dagli agenti. Infatti, in più di un’occasione, anche in presenza di filmati che documentavano senza possibilità di equivoci la violenza immotivata dei poliziotti, questi ultimi hanno finito per evitare anche solo l’incriminazione formale per i crimini da loro commessi.

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