di Mario Lombardo

La sfilata di leader asiatici in Cina sta proseguendo questa settimana con la visita del primo ministro della Malaysia, Najib Razak, giunto martedì a Pechino con l’intenzione di rafforzare i legami non solo economici tra i due paesi. Come il leader che l’aveva preceduto, il presidente filippino Rodrigo Duterte, Najib ha avuto parole di condanna nei confronti dell’Occidente e, in particolare anche se in maniera velata, degli Stati Uniti, lasciando intendere come anche il suo paese possa operare nel prossimo futuro un ribaltamento delle proprie priorità strategiche sotto la spinta di molteplici fattori.

I titoli dei giornali e delle agenzie di stampa di tutto il mondo hanno messo in guardia martedì dalla nuova minaccia che potrebbe incombere sulla “svolta” asiatica dell’amministrazione Obama in seguito a una dichiarazione di Najib, riportata dalla stampa cinese, nella quale invitava “le ex potenze coloniali a evitare di dare lezioni su come condurre gli affari interni ai paesi che in passato sono stati da loro sfruttati”.

Anche se la Malaysia era una colonia britannica, il riferimento del premier è stato principalmente agli Stati Uniti, peraltro ex potenza coloniale delle vicine Filippine. Najib, inoltre, in un editoriale da lui scritto per il giornale governativo China Daily ha celebrato lo stato e le prospettive delle relazioni con la Cina. L’articolo, ampiamente citato dai media internazionali, parla ad esempio di “una nuova fase” nei rapporti bilaterali, ma anche dei “nuovi livelli raggiunti dalla cooperazione militare”, di “chiare sinergie” e di un “destino comune” tra Pechino e Kuala Lumpur.

L’incontro di Najib nella giornata di martedì con il suo omologo cinese, Li Keqiang, a cui seguirà quello di giovedì col presidente Xi Jinping, ha subito prodotto più di dieci accordi bilaterali nell’ambito economico, della difesa e in altri settori. Una delle ragioni della trasferta cinese di Najib è legata alla necessità di rilanciare l’economia malese, colpita dal crollo delle quotazioni petrolifere e da un debito pubblico in rapida ascesa. I principali accordi già siglati a Pechino riguardano infatti progetti di infrastrutture da costruire in Malaysia, tra cui quello relativo a una linea ferroviaria ad alta velocità che dovrebbe collegare Singapore alla Cina sud-occidentale.

Gli aspetti strategici dalle implicazioni forse ancora più importanti del viaggio di Najib in Cina hanno però a che fare con la cooperazione militare e la risoluzione delle dispute territoriali e marittime nel Mar Cinese Meridionale. In merito a entrambe le questioni, gli Stati Uniti esercitano da anni forti pressioni sui paesi del sud-est asiatico con lo scopo di isolare la Cina, soprattutto se questi ultimi sono alleati di Washington.

In ambito militare, Pechino e Kuala Lumpur hanno siglato un “memorandum d’intesa” che, secondo il vice-ministro degli Esteri cinese, Liu Zhenmin, riguarderà in particolare il settore “navale”. In fase di contrattazione vi sono poi contratti d’acquisto di equipaggiamenti militari, tra cui 4 navi da guerra di costruzione cinese.

Come ha spiegato lo stesso Zhenmin, la cooperazione in ambito navale si ricollega alla questione del Mar Cinese Meridionale, dove i due paesi si impegnano appunto a “garantire pace e stabilità” e a “rafforzare la fiducia reciproca”.

Come altri paesi in Asia sud-orientale, a cominciare da Filippine e Vietnam, la Malaysia è al centro di dispute territoriali nel Mar Cinese Meridionale, anche se i toni di Kuala Lumpur nei confronti di Pechino sono stati finora molto più contenuti rispetto ai vicini. In Cina, ad ogni modo, Najib sembra avere sposato interamente la proposta cinese per la risoluzione delle contese, ovvero il dialogo su base “bilaterale”.

Quest’ultima è esattamente la formula che gli Stati Uniti intendono boicottare, mentre da tempo cercano di favorire l’allargamento della discussione sul Mar Cinese all’ambito regionale, introducendo, senza troppo successo, la questione nell’agenda di organi come l’Associazione delle Nazioni del Sud-Est Asiatico (ASEAN). In questo modo, gli USA puntano a impedire alla Cina di negoziare da una posizione di forza, come nel caso di colloqui bilaterali con paesi più piccoli, e a creare l’impressione che vi sia una certa unità di intenti a livello regionale nel condannare le presunte prevaricazioni di Pechino nelle acque contese.

Se i contenuti della visita di Najib Razak in Cina non sono apparsi finora preoccupanti come quelli che avevano caratterizzato la trasferta a Pechino del presidente delle Filippine, Rodrigo Duterte, l’atteggiamento del leader malese viene osservato con uguale ansia a Washington proprio perché si tratta del secondo episodio in due settimane dalle implicazioni potenzialmente disastrose per la strategia asiatica americana.

Anzi, proprio l’annuncio di Duterte della “separazione” dagli USA da parte delle Filippine, vale a dire uno degli alleati più solidi di Washington nella regione, può avere contribuito al cambio di prospettiva di Najib. Molti commentatori avevano d’altra parte considerato la rottura di Manila, sia pure non ancora consumata a livello pratico, come l’inizio della fine dei sogni egemonici in funzione anti-cinese degli Stati Uniti in Estremo Oriente.

La progressiva deriva cinese, anche se in molti casi parziale o soltanto in fase poco più che embrionale, che si sta registrando in molti paesi asiatici con rapporti storicamente solidi con gli Stati Uniti è dovuta in primo luogo proprio al declino della prima potenza economica del pianeta e, di riflesso, all’ascesa della Cina e alle opportunità che essa offre ai potenziali partner.

In molti casi, va detto, questo processo non comporta un distacco completo da Washington né, tantomeno, un abbraccio totale e incondizionato con Pechino. Paesi come le Filippine o la Thailandia, ma anche la stessa Malaysia, intendono piuttosto mantenere un rapporto di equilibrio con entrambe le potenze, nel tentativo di sfruttare i benefici che possono derivare da relazioni cordiali con queste ultime.

Questa strategia si sta però trasformando sempre più in una scommessa, dal momento che la crescente rivalità in ambito strategico, commerciale e militare tra Cina e Stati Uniti rende complicate le politiche improntate all’equidistanza. Washington, in particolare, chiede di fatto un allineamento totale, o quasi, ai propri interessi in Asia, lasciando ai propri interlocutori la difficile scelta di rinunciare ai benefici offerti da Pechino in cambio del mantenimento di un’alleanza strategica con gli USA con sempre meno vantaggi dal punto di vista pratico.

Per quanto riguarda il primo ministro della Malaysia, le sue aperture alla Cina sono anche la conseguenza delle difficoltà che sta incontrando sul fronte interno e dei guai legali in alcuni paesi, tra cui proprio gli Stati Uniti, derivanti dallo scandalo del colosso pubblico 1MDB. Da questa compagnia, impegnata in progetti per lo “sviluppo strategico” della Malaysia, sarebbero transitati e spariti fondi per centinaia di milioni di dollari, poi riciclati all’estero, di cui pare abbiano beneficato lo stesso Najib e i suoi famigliari.

I giornali occidentali, tra cui in particolare il Wall Street Journal, hanno condotto indagini approfondite sulla vicenda, fino a che, lo scorso mese di luglio, il dipartimento di Giustizia americano ha aperto un’indagine ufficiale e sequestrato beni per un valore di circa un miliardo di dollari acquistati da uomini vicini a Najib con fondi sottratti all’1MDB.

Questa iniziativa, dalle ovvie implicazioni politiche e strategiche, ha inasprito i rapporti tra gli USA e il governo malese di Najib, il quale sul fronte interno deve inoltre fronteggiare l’accesa opposizione di una parte del suo partito (Organizzazione Nazionale dei Malesi Uniti, UMNO). L’indagine americana si innesta tuttavia su una situazione già segnata dal progressivo intensificarsi dei rapporti tra Pechino e Kuala Lumpur, confermato ad esempio dal fatto che il principale partner commerciale della Cina tra i paesi ASEAN è proprio la Malaysia.

Complessivamente, gli scambi tra i due paesi hanno raggiunto i 106 miliardi di dollari nel 2013, inferiori in Asia solo a quelli tra Cina e Giappone e tra Cina e Corea del Sud. Anche in ambito militare, l’intesa sottoscritta questa settimana a Pechino non è una novità assoluta, come dimostrano le prime esercitazioni congiunte tenute tra i militari dei due paesi nel 2015.

Ciononostante, almeno finora l’alleanza tra USA e il governo malese non aveva mostrato segni particolari di deterioramento. Il presidente americano Obama era stato ad esempio protagonista di una visita dai toni amichevoli in Malysia nel novembre dello scorso anno, mentre lo stesso inquilino della Casa Bianca aveva di fatto appoggiato Najib dopo le elezioni del 2013, caratterizzate dalle accuse di brogli da parte dell’opposizione. Il premier malese, da parte sua, aveva tra l’altro appoggiato il trattato di libero scambio trans-pacifico (TTP) promosso dagli Stati Uniti, di cui il suo paese fa parte.

Come dimostra la già ricordata causa legale avviata negli USA, è possibile che Washington consideri Najib Razak un leader non più affidabile, a causa sia del suo corteggiamento di Pechino sia del discredito causato dallo scandalo dei fondi dell’1MDB. Oltre a ciò, va ricordato come negli ambienti finanziari occidentali ci sia sempre maggiore frustrazione per l’incapacità del governo di Najib di adottare provvedimenti che limitino la corruzione e il clientelismo, su cui si basa il potere dell’UMNO, e che aprano ulteriormente il paese del sud-est asiatico agli interessi del capitale internazionale.

Pin It

Altrenotizie.org - testata giornalistica registrata presso il Tribunale civile di Roma. Autorizzazione n.476 del 13/12/2006.
Direttore responsabile: Fabrizio Casari - f.casari@altrenotizie.org
Web Master Alessandro Iacuelli
Progetto e realizzazione testata Sergio Carravetta - chef@lagrille.net
Tutti gli articoli sono sotto licenza Creative Commons, pertanto posso essere riportati a condizione di citare l'autore e la fonte.
Privacy Policy | Cookie Policy