di Michele Paris

Il governo Conservatore britannico del primo ministro, Theresa May, ha dovuto incassare un colpo pesante nella giornata di giovedì dopo che l’Alta Corte di Londra ha attribuito al Parlamento il potere di far scattare la cosiddetta “Brexit”. Downing Street aveva infatti annunciato che sarebbe stato invece il governo a invocare entro la fine di marzo l’articolo 50 del trattato dell’Unione Europea, avviando in autonomia le procedure di sganciamento da Bruxelles.

Come minimo, la decisione letta dal “Lord Chief Justice”, Lord Thomas, rallenterà l’uscita della Gran Bretagna dall’UE e mette in serio imbarazzo il gabinetto May, dal momento che la premier aveva cercato di evitare il coinvolgimento di un Parlamento a maggioranza contrario alla “Brexit”.

Theresa May e i consulenti legali del governo ritenevano ci fossero le condizioni per esercitare la decisione esclusiva sull’avvio della “Brexit” da parte dell’Esecutivo visto che la questione era passata attraverso un voto popolare. L’Alta Corte, al contrario, ha stabilito che “la regola fondamentale della Costituzione [non scritta] del Regno Unito consiste nella sovranità del Parlamento”, il quale dovrà così esprimersi sulla cancellazione della legge del 1972 che ratificò l’ingresso di Londra nell’Unione Europea (“European Communities Act”).

Il governo Conservatore, per bocca del ministro per il Commercio Estero Liam Fox, si è detto deluso dalla sentenza, ma ha confermato la determinazione “nel rispettare il risultato del referendum” e annunciato ricorso alla Corte Suprema. Theresa May non ha invece parlato pubblicamente, ma lunedì prossimo, dal momento che sarà in visita in India, invierà un proprio ministro alla Camera dei Comuni per leggere una dichiarazione ufficiale.

Il ricorso dell’Esecutivo verrà preso in considerazione a partire dal prossimo 7 dicembre, ma se la Corte Suprema dovesse confermare la decisione di giovedì la crisi politica innescata dalla “Brexit” rischia di aggravarsi ulteriormente.

Politici e commentatori britannici assicurano comunque che il Parlamento non potrà che confermare il voto del referendum. Tuttavia, la poca chiarezza sulle procedure che dovrebbero innescare la “Brexit” rende incerti i prossimi sviluppi e il Parlamento potrebbe inoltre imporre delle condizioni per la conduzione delle trattative con Bruxelles, principalmente per ridurne l’impatto negativo, limitando così gli spazi di manovra del governo.

Al momento non è nemmeno chiaro se la Camera dei Comuni e quella dei Lord voteranno con un semplice sì o un no oppure, complicando gli scenari, se sarà necessaria l’approvazione di una legge ad hoc.

Nella più clamorosa delle ipotesi, il Parlamento di Londra potrebbe addirittura bloccare la “Brexit”, mentre in molti ritengono possibile che il protrarsi dello scontro politico possa provocare elezioni anticipate nei prossimi mesi. Per il momento, i leader che si erano schierati per la permanenza della Gran Bretagna nell’Unione hanno soltanto evidenziato come il verdetto dell’Alta Corte rappresenti un successo per la democrazia, visto che sanziona l’intervento del Parlamento nella “Brexit”

Il numero uno dei Laburisti, Jeremy Corbyn, e quello dei Liberal Democratici, Tim Farron, hanno poi invitato il governo a presentare al più presto al Parlamento i termini con cui intende negoziare con Bruxelles l’uscita dall’UE.

Una delle principali forze dietro alla “Brexit”, Nigel Farage, del partito per l’Indipendenza del Regno Unito (UKIP) di estrema destra, ha invece prospettato un possibile “tradimento” del voto popolare attraverso un rinvio o una marcia indietro sull’invocazione dell’articolo 50. Farage, in maniera inquietante, ha lasciato intendere che potrebbero esserci conseguenze molto gravi se ciò dovesse accadere, mettendo in guardia dal “livello di rabbia popolare” che verrebbe provocata.

La dichiarazione della premier May sulla decisione del governo di far scattare le condizioni previste dall’articolo 50, oltre ad avere toccato un tasto delicato in relazione alle prerogative dell’esecutivo e del Parlamento, aveva suscitato i timori di quella parte della classe dirigente britannica che vede con apprensione l’uscita dall’Unione senza la salvaguardia di alcune condizioni favorevoli a Londra, a cominciare dall’accesso al mercato unico europeo.

Ciò è vero in particolare per l’industria finanziaria, come conferma anche l’identità delle forze dietro alla causa legale che ha portato alla sentenza di giovedì dell’Alta Corte.

Ad esempio, una delle protagoniste della vicenda è la proprietaria di un fondo di investimenti, Gina Miller, la quale, con il marito, ha messo assieme nella “City” una fortuna da svariate decine di milioni di sterline.

Anche alcuni studi legali che si sono occupati del caso operano solitamente nel settore bancario e finanziario. Ciò aiuta a capire come le pretese di volere rendere più democratico il processo di uscita dall’UE con il coinvolgimento del Parlamento di Londra nascondano in realtà interessi di ben altro genere.

Il business britannico che ha beneficiato dell’appartenenza della Gran Bretagna all’Unione, nel caso non riuscisse a bloccare la “Brexit”, intende cioè mantenere condizioni favorevoli anche dopo l’uscita, puntando per questo sull’intervento del Parlamento, i cui membri erano in maggioranza schierati per il “Remain”.

A dare un’idea delle turbolenze provocate dal voto sulla “Brexit” è infine l’andamento della sterlina. La moneta britannica aveva perso circa il 20% sul dollaro e il 15% sull’euro a partire dal referendum, con punte negative toccate dopo l’annuncio di Theresa May che a far scattare l’articolo 50 sarebbe stato il governo.

Soltanto giovedì, invece, la sterlina ha recuperato quasi l’1.5% sul dollaro e potrebbe proseguire nel trend positivo se la sentenza dell’Alta Corte dovesse essere confermata dalla Corte Suprema di qui a poche settimane.

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