di Michele Paris

A poche ore dalla conclusione del lunghissimo processo elettorale che porterà all’elezione del prossimo presidente degli Stati Uniti, il quadro politico americano si ritrova invischiato in una situazione di crisi come forse mai è accaduto nella storia di questo paese. La (relativamente) normale evoluzione delle campagne elettorali per la Casa Bianca è stata infatti stravolta quest’anno da due candidati profondamente screditati agli occhi dei potenziali elettori, mentre la loro stessa presenza sulle schede ha prodotto e, allo stesso tempo, è apparsa il risultato delle gravissime tensioni che attraversano la classe dirigente di un “impero” entrato con ogni probabilità in una fase di declino irreversibile.

La vigilia del voto ha così rispecchiato il travaglio della classe politica americana e le contraddizioni scaturite dai timori di non essere più in grado di mantenere in piedi la facciata di legittimità democratica di un sistema che non ha praticamente più nessun contatto con la realtà in cui vivono decine o centinaia di milioni di persone.

L’ultima scossa è giunta nel fine settimana, ancora una volta da un organo ufficialmente a-politico. Il direttore dell’FBI, James Comey, nemmeno dieci giorni dopo essere intervenuto nel dibattito delle presidenziali, annunciando la riapertura del procedimento d’indagine ai danni di Hillary Clinton per le note e-mail del Dipartimento di Stato, domenica ha operato una nuova marcia indietro.

Comey ha ancora una volta indirizzato una lettera alle principali commissioni del Congresso per dichiarare questa volta che nulla, nel nuovo materiale relativo all’indagine, può far pensare a elementi che giustifichino un’ipotetica incriminazione della candidata Democratica alla Casa Bianca. Il passo indietro del numero uno della polizia federale americana è l’ennesima farsa di questa campagna elettorale e, almeno in teoria, riporta le lancette dell’orologio della vicenda legale che ha coinvolto l’ex segretario di Stato allo scorso mese di luglio, quando lo stesso Comey aveva escluso la presenza di materiale incriminante.

Com’è noto, il caso ruota attorno all’utilizzo, da parte di Hillary, di un server di posta elettronica privato al posto di quello governativo per la propria corrispondenza durante la permanenza al dipartimento di Stato. Con questo account e in violazione della legge, l’ex segretario aveva scambiato mail personali e, soprattutto, ufficiali, esponendo potenzialmente materiale riservato ad attacchi informatici e sottraendo lo stesso alla conservazione per essere reso pubblico in futuro.

Ancora peggio, come ha rivelato recentemente WikiLeaks, Hillary e il suo team avevano eliminato migliaia di messaggi, a loro dire per errore e comunque in gran parte di natura personale. Secondo molti, queste mail contenevano invece materiale esplosivo, tra cui le prove della concessione di favori a grandi interessi economici e a governi stranieri, i quali a loro volta avevano donato somme ingenti alla famiglia Clinton, principalmente attraverso l’ente “filantropico” Clinton Foundation.

Dopo l’archiviazione annunciata la scorsa estate, tra mille polemiche l’FBI aveva riaperto il caso a meno di due settimane dalle elezioni presidenziali in seguito al reperimento di migliaia di nuove e-mail riconducibili alla Clinton nel corso di indagini apparentemente non collegate, relative cioè all’invio di messaggi “espliciti” a una 15enne da parte dell’ex deputato Democratico di New York, Anthony Weiner, già consorte dell’assistente di Hillary, Huma Abedin.

Sui giornali americani e sui social media è subito scattata una discussione sulle motivazioni del comportamento del direttore dell’FBI. Al di là della reale possibilità di analizzare il contenuto di qualcosa come 650 mila mail in una settimana, la più recente decisione di Comey sembra riflettere ancora una volta le divisioni e le tensioni che caratterizzano la sua agenzia, così come l’intera classe dirigente USA, di fronte all’imminente elezione alla presidenza di uno tra Hillary Clinton e Donald Trump.

Se il discredito e i guai legali della candidata Democratica, che rischiano di compromettere da subito il suo mandato e di indebolire ancor più la posizione internazionale degli Stati Uniti, rendono credibile il fatto che una parte degli ambienti di potere americani abbia cercato di riportare in corsa Trump, Hillary rimane di gran lunga il cavallo preferito dall’establishment.

In questa prospettiva, l’uscita di dieci giorni fa di Comey poteva essere un modo per placare le voci, ben documentate dai media, che all’interno dell’FBI chiedevano un’azione più incisiva contro la ex first lady. Che poi tutto si sia risolto, almeno per il momento, in un nulla di fatto può dipendere dall’autorità che esercita sull’FBI il dipartimento di Giustizia, ovvero un organo politico controllato da un’amministrazione Democratica.

Gli ultimi sviluppi della vicenda Clinton potrebbero comunque avere un’influenza tutt’al più marginale sulle intenzioni di voto di elettori in buona parte scoraggiati nei confronti di tutto ciò che emana da Washington e ormai assuefatti a una campagna elettorale fatta di scandali e insulti.

Piuttosto, l’ennesimo colpo di scena – vero o finto che sia – sembra avere accentuato la percezione di politici e commentatori del danno che le candidature di Hillary e Trump, così come i loro guai, stanno provocando all’immagine e alla credibilità internazionale degli Stati Uniti.

Vari editoriali apparsi sulle principali testate americane nei giorni scorsi hanno evidenziato queste ansie e, in particolare, la presa d’atto che, a questo punto, chiunque conquisti la presidenza gli Stati Uniti sono destinati ad andare incontro a un periodo di grave instabilità. Ciò, a sua volta, rischia di indebolire la spinta propulsiva nelle aree cruciali del pianeta che viene considerata fondamentale per rimediare alla costante perdita di influenza di Washington di fronte all’avanzata di paesi come Russia, Iran e, soprattutto, Cina.

Sia pure in apprensione per queste ragioni, lo schieramento politico e mediatico “liberal” ha dato l’impressione nell’immediata vigilia del voto di avere tratto un respiro di sollievo, credendo infatti di avere scongiurato il pericolo di una vittoria di Donald Trump. Se i sondaggi commissionati dalle testate “mainstream” americane vanno presi con le dovute precauzioni, le indagini degli ultimi giorni e ancor prima della più recente decisione favorevole alla Clinton del direttore dell’FBI indicano una tenuta della candidata Democratica.

Per quanto riguarda il dato nazionale, quest’ultima continua ad avere un margine di vantaggio, anche se ristretto. La competizione si deciderà tuttavia in una manciata di stati in bilico, nella maggior parte dei quali, allo stesso modo, Hillary risulta in vantaggio nonostante il recupero di Trump.

Le ultimissime apparizioni dei due candidati hanno così rispecchiato le loro priorità. Lunedì, Trump è stato impegnato addirittura in cinque stati (Florida, North Carolina, Pennsylvania, New Hampshire e Michigan), mentre la favorita per la Casa Bianca si è limitata a tre stati tra quelli decisivi: North Carolina, Pennsylvania e Michigan.

Hillary, infine, ha cercato di conservare il vantaggio attribuitole dai sondaggi reclutando varie celebrità per convincere gli elettori ancora indecisi a votare per lei e a impedire una vittoria di Trump. Un eventuale ingresso alla Casa Bianca del miliardario di New York, che segnerebbe in effetti un drastico spostamento a destra del baricentro politico americano, viene dipinto dai sostenitori di Hillary come un evento catastrofico, ma questa strategia serve più che altro a nascondere la realtà di una presidenza Clinton che lascia intravedere conseguenze ugualmente disastrose, se non addirittura più gravi, soprattutto in merito a una più che probabile accelerazione dell’intervento degli USA nei principali scenari di crisi internazionali.

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