di Michele Paris

L’aspetto più importante dell’accordo siglato questa settimana a Mosca tra Russia, Iran e Turchia su una possibile risoluzione del conflitto in Siria, per lo meno in attesa di verificarne l’efficacia, è rappresentato senza dubbio dall’esclusione degli Stati Uniti dai negoziati condotti tra i tre governi le cui forze armate risultano impegnate nel paese mediorientale.

L’altro particolare di rilievo è che l’annuncio di un piano comune da parte dei rispettivi ministri degli Esteri riuniti nella capitale russa non è stato ostacolato né ritardato dall’assassinio, avvenuto lunedì ad Ankara, dell’ambasciatore di Mosca in Turchia, Andrey Karlov, per mano di un agente della polizia turca.

Se motivazioni ed eventuali legami dell’attentatore, opportunamente eliminato dalle forze di sicurezza turche, non sono ancora chiari, è difficile pensare a uno scenario differente da quello in cui un’operazione così cruenta sia stata messa in atto come ritorsione o per impedire il riavvicinamento in atto tra Russia e Turchia, manifestatosi su più fronti, tra cui appunto quello siriano.

In quella che è stata battezzata come “Dichiarazione di Mosca”, i rappresentanti dei tre governi coinvolti hanno affermato di essere pronti ad agire da “garanti” di un accordo di pace tra Damasco e l’opposizione. I punti principali dell’intesa riguardano l’implementazione di un cessate il fuoco e il mantenimento dell’integrità territoriale della Siria.

Inoltre, la lotta allo Stato Islamico (ISIS/Daesh), alla filiale di al-Qaeda in Siria, ovvero il cosiddetto Fronte Fatah al-Sham (ex Fronte al-Nusra), e ad altri gruppi fondamentalisti proseguirà, mentre una proposta russa prevede colloqui diplomatici, da tenersi ad Astana, in Kazakistan, tra il regime di Assad e l’opposizione interessata al dialogo.

L’ambizione delle tre parti, e soprattutto di Mosca, è dunque quella di gettare seriamente le basi per una risoluzione del sanguinoso conflitto in Siria e di un processo di transizione politica in termini che salvaguardino i loro interessi nella regione.

Quella in corso appare un’evoluzione diametralmente opposta al quadro nel quale fino a pochi mesi fa erano condotti – da Stati Uniti e Russia – gli improbabili negoziati di pace di Ginevra sotto la supervisione ONU. Proprio a questi ultimi ha fatto riferimento in maniera indiretta martedì il ministro degli Esteri russo, Sergei Shoigu, nel bollare come fallimentari i precedenti sforzi degli Stati Uniti e dei loro partner, nessuno dei quali aveva “una reale influenza sulla situazione sul campo”.

La marginalizzazione di Washington appare ancora più significativa alla luce del fatto che, secondo il nuovo formato dei futuri negoziati lanciati a Mosca, i rapporti con l’opposizione anti-Assad saranno tenuti dalla Turchia. Questo ruolo sembra essere stato concordato proprio con il Cremlino.

Non solo, secondo la stampa russa, l’ambasciatore Karlov aveva stabilito contatti con l’opposizione siriana, verosimilmente grazie alla mediazione del governo di Ankara, per promuovere i negoziati di pace di cui si è parlato nei giorni scorsi a Mosca. La sua morte sarebbe perciò direttamente connessa agli sviluppi della crisi in Siria e all’evolversi dei rapporti tra Russia e Turchia.

L’assassinio, in ogni caso, sembra avere avuto l’effetto contrario a quello desiderato dai possibili mandanti. Se la posizione di Erdogan nei confronti di Putin si è fatta indubbiamente più delicata, restringendo forse le opzioni e i margini di manovra della Turchia in Siria, i due governi si sono subito ritrovati sulla stessa lunghezza d’onda circa le responsabilità dell’omicidio e le misure da adottare in conseguenza di esso.

Le relazioni tra Turchia e Russia continueranno cioè a rafforzarsi, in parallelo al raffreddamento registrato con Europa e Stati Uniti. Significative in questo senso sono state le dichiarazioni degli esponenti del governo turco sulla situazione ad Aleppo, dove Ankara ha svolto un ruolo cruciale nel mandare in porto l’accordo per l’evacuazione dei “ribelli” rimasti nei quartieri orientali assediati dall’esercito di Damasco.

La Turchia, in sostanza, da sponsor dell’opposizione armata al regime di Assad ha finito per elogiare l’operazione di Siria, Russia, Iran e Hezbollah che ha portato alla liberazione di Aleppo. Questa è d’altra parte la logica conseguenza del riallineamento strategico deciso da Erdogan dopo il punto più basso toccato dalle relazioni con Mosca in seguito all’abbattimento del jet russo sui cieli della Siria nel novembre del 2015.

Nei mesi successivi, le scuse formali del presidente turco sono state seguite da una serie di iniziative che hanno fatto crescere il disagio dei partner occidentali di Ankara: dalla promozione della cooperazione in ambito militare con Mosca al lancio ufficiale del gasdotto “Turkish Stream” per trasportare il gas russo verso l’Europa meridionale. Anche l’intervento militare turco nel nord della Siria iniziato la scorsa estate, principalmente in funzione anti-curda, sembra essere stato concordato con la Russia.

La notizia dell’accordo di Mosca, seguito alla sconfitta dei “ribelli” ad Aleppo, ha ulteriormente indebolito la posizione americana in Siria e, più in generale, nell’intera regione mediorientale. A poco sono servite le rassicurazioni del dipartimento di Stato sul mantenimento da parte di Washington della propria influenza sugli eventi, così come il tentativo di minimizzare l’esclusione dall’iniziativa diplomatica di Mosca.

Tutto ciò che è stato concesso a Washington è stata una telefonata del ministro degli Esteri russo, Sergei Lavrov, al segretario di Stato, John Kerry, per metterlo al corrente dei risultati del vertice nella capitale russa una volta ultimati i lavori.

Le recriminazioni sul ridimensionamento degli USA hanno trovato invece libero sfogo sui giornali d’oltreoceano, soprattutto tra quelli che da tempo chiedono un intervento più deciso nel teatro di guerra siriano.

Al riconoscimento che Assad potrebbe rimanere al suo posto ancora a lungo si sono mescolate le accuse rivolte a Obama per non avere avuto il coraggio di adottare iniziative efficaci volte al rovesciamento del regime di Damasco. A causa di ciò, gli USA si sono ritrovati a svolgere un ruolo da spettatori, mentre il destino della Siria sembra decidersi a Mosca, Teheran e Ankara.

In realtà, il fallimento americano in Siria deriva direttamente dalla decisione deliberata di fomentare una rivolta studiata in buona parte a tavolino e basata su formazioni con tendenze fondamentaliste. I legami quasi del tutto inesistenti di questi gruppi armati con la popolazione siriana e l’implementazione di un’agenda estremista e settaria nelle località strappate al controllo del governo, ancora prima delle bombe russe hanno determinato una più o meno rapida perdita di terreno nel paese, nonostante il massiccio appoggio finanziario e militare garantito dagli stessi Stati Uniti e dai loro alleati nel mondo arabo.

Il progetto americano per la Siria, a causa della sua stessa natura, ha finito poi con l’essere sopraffatto dalle proprie contraddizioni. Ad esempio, il presunto approccio prudente dell’amministrazione Obama, dovuto all’impossibilità di far digerire una nuova guerra totale in Medio Oriente alla popolazione americana, ma anche a una parte dell’apparato militare, è consistito nell’appoggio non solo a formazioni “ribelli” con inclinazioni non esattamente democratiche, ma anche alle milizie curde, a lungo considerate lo strumento più efficace nella guerra all’ISIS/Daesh.

Il ruolo assegnato ai curdi nella crisi in Siria ha creato il panico in Turchia, il cui governo era uno degli sponsor principali dell’opposizione anti-Assad, e ha contribuito al raffreddamento dei rapporti con Washington e alla distensione con Mosca. Il rimescolamento delle priorità strategiche di Erdogan ha poi probabilmente spinto gli Stati Uniti quanto meno ad appoggiare tacitamente il fallito colpo di stato del luglio scorso, attribuito a quegli stessi “gulenisti” che oggi sembrano essere dietro all’omicidio dell’ambasciatore russo Karlov, sventato proprio dalle informazioni sui preparativi comunicate da Mosca ad Ankara.

Al di là delle possibilità di successo della “Dichiarazione di Mosca” e degli eventuali sviluppi delle prossime settimane, le speranze di una qualche stabilizzazione della Siria e del Medio Oriente rimangono comunque fragili se non del tutto illusorie.

Per cominciare, l’allontanamento della Turchia dai suoi alleati NATO prefigura una serie di scosse difficili da sopravvalutare, visto il ruolo svolto per decenni da questo paese nell’Alleanza Atlantica. Il raffreddamento dei rapporti con Ankara e, ancor più, il continuo rafforzamento della posizione della Russia in Medio Oriente non saranno accettati passivamente dagli Stati Uniti, malgrado la retorica del presidente eletto Trump appaia diametralmente opposta a quella di Obama in questo ambito.

In generale, quindi, gli sviluppi della crisi siriana osservati a Mosca indicano anch’essi un’accelerazione del processo di integrazione euro-asiatica in atto ormai da tempo, a discapito delle potenze occidentali, prima fra tutte quella americana.

Se questi sviluppi prospettano in linea teorica un’inversione dell’escalation di violenza e distruzione che ha caratterizzato la politica estera degli Stati Uniti, la reazione di questi ultimi al progressivo indebolimento della propria posizione internazionale rende quanto mai precaria ogni previsione ottimistica sul futuro della Siria o di qualsiasi altro paese coinvolto in un conflitto che si intrecci con gli interessi strategici di Washington.

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