di Michele Paris

Il recente invito per un vertice alla Casa Bianca, presentato dal presidente americano a quello delle Filippine, Rodrigo Duterte, ha scatenato un’ondata di critiche negli Stati Uniti e non solo per la tendenza di Donald Trump a ignorare violazioni dei diritti democratici di discussi leader stranieri, legittimando così i loro metodi autoritari.

La polemica è stata amplificata dalle dichiarazioni rilasciate praticamente in contemporanea da Trump sulla sua ipotetica disponibilità a incontrare  il dittatore nordcoreano, Kim Jong-un, nonostante le tensioni alle stelle tra i due paesi nemici. Inoltre, la stampa ufficiale negli USA, soprattutto quella di orientamento “liberal”, non ha mancato di ricordare come Trump abbia già accolto a Washington il presidente-macellaio egiziano, Abdel Fattah al-Sisi, e, malgrado qualche recente ripensamento, avesse più volte manifestato la sua ammirazione per Vladimir Putin.

Se le ultime vicende mostrano per l’ennesima volta come la questione dei diritti umani e democratici sia per il governo americano uno strumento da utilizzare nelle relazioni internazionali a seconda della propria convenienza, le stesse critiche della stampa sono altamente selettive e tendono ad attenuarsi o a passare in secondo piano quando i dittatori di turno ospitati alla Casa Bianca sono completamente allineati agli interessi strategici degli Stati Uniti.

Detto questo, il rilievo dell’invito di Trump a Duterte, nonché il quasi rifiuto di quest’ultimo, è collegato all’evolversi della tesissima situazione in Asia orientale a causa dell’escalation di pressioni e minacce messa in atto dal governo USA nei confronti di Cina e Corea del Nord.

Per cominciare, il presidente americano avrebbe parlato telefonicamente con il suo omologo filippino nella giornata di sabato, durante la quale gli avrebbe appunto esteso un invito per un faccia a faccia alla Casa Bianca, senza però che l’offerta fosse stata preparata, come di consuetudine, dal dipartimento di Stato di Washington.

Duterte viene considerato in Occidente e, in particolare, negli Stati Uniti, come un leader da cui tenersi alla larga e possibilmente da emarginare, poiché da quando è diventato presidente delle Filippine nel giugno del 2016 ha promosso e presieduto a una durissima guerra contro il narcotraffico che ha finora provocato migliaia di omicidi “extra-giudiziari” per mano della polizia e di vere e proprie squadre della morte.

In realtà, questa violenta campagna di Duterte era stata appoggiata inizialmente dall’amministrazione Obama, anche tramite finanziamenti diretti alle forze di sicurezza filippine, e la sua fama di “sceriffo” senza scrupoli per i diritti civili era già nota in precedenza, vista la guerra simile condotta per anni in veste di sindaco della città di Davao.

Il cambiamento di retorica a Washington nei confronti di Duterte è dovuto così al rimescolamento degli obiettivi strategici delle Filippine avvenuti dopo la sua elezione. Mentre il suo predecessore, Benigno Aquino, era stato un docile esecutore delle direttive di Washington, Duterte ha subito mostrato di voler perseguire una politica estera più indipendente e di aprire diplomaticamente ed economicamente alla Cina.

La mossa di Trump del fine settimana va perciò inserita in questo quadro e lo stesso presidente americano ha chiarito in un’intervista rilasciata lunedì a Bloomberg News come le Filippine siano “molto importanti strategicamente e militarmente” per gli Stati Uniti.

Già dopo che era circolata la notizia della telefonata tra Trump e Duterte, definita “molto amichevole” dall’inquilino della Casa Bianca, il capo di gabinetto del presidente, Reince Priebus, aveva chiarito in un’apparizione alla ABC che la conversazione era stata dedicata interamente alla Corea del Nord. Vista la gravità della crisi nella penisola di Corea, in sostanza, gli USA starebbero cercando il più ampio appoggio possibile dai partner della regione.

In molti hanno peraltro fatto notare come le Filippine abbiano ben poca influenza sugli eventi coreani, anche se il riferimento dell’amministrazione Trump a Pyongyang è da leggere in chiave cinese. La campagna contro la Corea del Nord, cioè, ha come vero obiettivo il contenimento di Pechino e, in questa prospettiva, le Filippine sono una pedina fondamentale per la strategia statunitense.

L’intervento di Trump con il presidente filippino e l’invito a Washington fanno parte insomma degli sforzi della nuova amministrazione Repubblicana di “riconquistare” Manila dopo le frizioni con Obama e di riportare il tradizionale alleato in Estremo Oriente sulla stessa lunghezza d’onda degli USA nell’approccio alla Cina.

Non a caso, infatti, la telefonata tra Trump e Duterte è avvenuta durante le fasi finali del vertice dell’Associazione delle Nazioni del Sud Est Asiatico (ASEAN), andato in scena a Manila e presieduto dal governo filippino, al termine del quale gli Stati Uniti speravano di ottenere la tanto sospirata dichiarazione ufficiale di condanna delle attività di Pechino nelle aree contese del Mar Cinese Meridionale.

Al contrario, i membri dell’ASEAN non si sono accordati su questo punto e ancora una volta nel comunicato finale del summit non si è avuta traccia di censura della Cina. Nel recente passato erano stati paesi molto vicini a Pechino, come Cambogia o Laos, a bloccare dichiarazioni critiche nei confronti della Cina, ma in questo caso sarebbe stato proprio Duterte a stralciare ogni riferimento alle contese nel Mar Cinese Meridionale.

Il leader delle Filippine avrebbe bocciato una bozza di dichiarazione ASEAN che faceva riferimento a una sentenza dello scorso anno di un tribunale internazionale, seguita a una causa intentata proprio da Manila su indicazione di Washington, che aveva condannato la Cina per le sue attività di costruzione su isole rivendicate da vari paesi nel Mar Cinese Meridionale.

Duterte, poi, ha se possibile rincarato ulteriormente la dose, infliggendo un’altra umiliazione agli Stati Uniti, quando ha detto di non essere certo di poter accettare l’invito di Trump visti i suoi impegni che lo porteranno a breve in Russia e in Israele. Queste ultime dichiarazioni, inoltre, Duterte le ha rilasciate dopo avere visitato personalmente tre navi da guerra cinesi ancorate al porto della città di Davao.

Com’è spesso accaduto anche nei mesi scorsi, le parole di Duterte che hanno evidenziato un’attitudine marcatamente anti-americana sono state in parte rettificate da membri del suo governo. In questo caso è stato un portavoce del ministero degli Esteri a precisare che il presidente filippino si recherà “probabilmente” a Washington nei prossimi mesi e che il governo di Manila sta attendendo la notifica ufficiale dell’invito dalla Casa Bianca.

Ciò non attenua comunque di molto il messaggio lanciato da Duterte all’alleato americano, anche se conferma l’esistenza di forze contrastanti nella classe dirigente delle Filippine circa l’approccio da tenere nei confronti degli USA e, di conseguenza, della Cina. Soprattutto, poi, tra gli esponenti dell’opposizione politica e i vertici militari appare evidente l’agitazione anti-Duterte, con ogni probabilità alimentata da Washington, concretizzatasi in tentativi di impeachment e voci di un possibile golpe.

A dimostrazione del fatto che l’amministrazione Duterte stessa sta provando a intraprendere un percorso diplomatico basato sull’equidistanza tra Washington e Pechino, da Manila continuano infine a non mancare anche i segnali anti-cinesi.

Ad esempio, qualche settimana fa il ministro della Difesa filippino, Delfin Lorenzana, e il comandante delle Forze Armate di Manila, generale Eduardo Año, avevano visitato un’isola nell’arcipelago conteso delle Spratly, nel Mar Cinese Meridionale, per rivendicare la sovranità filippina su di essa.

Il blitz era stato criticato da Pechino, da dove più recentemente i lavori ordinati dal governo filippino per potenziare le infrastrutture già costruite sull’isola sono stati bollati come “illegali”. Manila, da parte sua, ha invece ribadito fermamente la legittimità delle operazioni condotte su un’isola da considerarsi a tutti gli effetti parte della municipalità filippina di Palawan.

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