Ventitre degli attuali ventotto membri dell’UE hanno sottoscritto questa settimana un accordo vincolante sulla difesa comune che rappresenta un passo avanti probabilmente decisivo sia nella creazione di un esercito continentale sia, soprattutto, nel processo di militarizzazione incoraggiato dalle classi dirigenti europee in un clima internazionale sempre più incerto e competitivo.

 

 

Il cosiddetto accordo sulla Cooperazione Strutturata Permanente (PESCO) è stato prevedibilmente presentato dai singoli governi coinvolti e da Bruxelles come un evento storico che rafforzerà la sicurezza dei membri dell’Unione, consentendo anche a questi ultimi di agire in maniera indipendente sugli scenari internazionali.

 

L’intesa prevede una serie di progetti congiunti che avranno a che fare principalmente con l’acquisto di nuovi armamenti, l’addestramento, la ricerca e lo sviluppo. Inoltre, dovrebbero essere istituiti contingenti militari congiunti in grado di rispondere a situazioni di crisi e unità di combattimento regolari. Sul fronte logistico, invece, è allo studio una sorta di area di “Schengen militare” che consenta lo spostamento rapido e senza intoppi burocratici di soldati ed equipaggiamenti attraverso i confini europei.

 

A sostegno dei piani di fornitura di armi ci sarà un fondo europeo da cinque miliardi di euro, mentre altri stanziamenti speciali sono previsti per il finanziamento delle operazioni sul campo. I 23 paesi che hanno aderito alla PESCO, i quali manterranno il controllo sui propri “asset” militari nazionali, dovranno presentare piani di azione per delineare i rispettivi obiettivi militari. Soprattutto, poi, tutti i paesi s’impegnano ad aumentare progressivamente e in maniera regolare il livello delle loro spese militari.

 

La questione immediata che emerge in relazione al progetto di difesa comune europea è la sua apparente sovrapposizione con la NATO. Ufficialmente, in ogni caso, il Patto Atlantico e gli stessi Stati Uniti si dicono favorevoli alla formazione di un nuovo organismo di difesa congiunto in Europea, identificando tra gli obiettivi comuni la battaglia contro la minaccia terroristica e la presunta minaccia russa.

 

Leader e ministri della Difesa dei vari paesi europei hanno da parte loro insistito nel sottolineare la complementarietà della PESCO con le strutture e le operazioni NATO. Il comunicato ufficiale che ha accompagnato la sottoscrizione dell’accordo lunedì a Bruxelles afferma che “le rafforzate capacità militari dei paesi EU saranno utili anche alla NATO”. Esse dovrebbero rispondere infatti “alle ripetute richieste [americane] per una maggiore condivisione transatlantica degli oneri” legati alla difesa.

 

La pretesa che la PESCO si inquadri in uno sforzo che tenda ad armonizzare le strutture difensive occidentali o che dia un qualche impulso al consolidamento delle relazioni transatlantiche è in realtà assurda. Infatti, anche i resoconti della stampa ufficiale in questi giorni hanno sostanzialmente ammesso che la spinta decisiva a un progetto che, in varie forme, circola nei corridoi del potere in Europa da decenni è arrivata in definitiva grazie a due fattori che stanno letteralmente lacerando l’unità continentale e le strutture politiche e diplomatiche consolidate negli ultimi decenni, ovvero la “Brexit” e l’approdo di Donald Trump alla Casa Bianca.

 

Il referendum per l’uscita della Gran Bretagna dall’UE ha rimosso uno dei principali ostacoli alla creazione di un apparato comune di difesa nel vecchio continente. Londra, in stretta collaborazione con l’alleato americano, si era sempre opposta a questo progetto, sostenuto invece da Parigi e Berlino, principalmente per impedire la formazione di una possibile alternativa militare alla NATO e, di conseguenza, per prevenire l’erosione dell’influenza di Washington sull’Europa. La Gran Bretagna è ovviamente uno dei cinque paesi che non ha sottoscritto la PESCO. Gli altri sono Danimarca, Irlanda, Malta e Portogallo, i quali avranno però la possibilità di aderirvi in qualsiasi momento.

 

Per quanto riguarda l’amministrazione americana, le tendenze ultra-nazionalistiche di Trump e la promozione esclusiva degli interessi del suo paese nella conduzione degli affari internazionali hanno portato precocemente a un inasprimento delle tensioni transatlantiche. Gli attacchi del governo americano alle istituzioni e alle pratiche tradizionali del commercio globale, la portata destabilizzante delle aggressive politiche di Washington in Medio Oriente, così come nei confronti della Russia e della Cina, hanno messo a rischio gli interessi economici e strategici dell’Europa. A ciò va aggiunta poi la crescente competizione, sia con le potenze emergenti sia con gli stessi Stati Uniti, per i mercati internazionali e le risorse energetiche che richiede, nell’ottica delle classe dirigenti europee, uno strumento militare in grado di imporre e difendere i propri interessi.

 

Da qui, il rinnovato impulso a creare una struttura militare indipendente, se non addirittura ostile, a un Alleanza Atlantica dominata dagli Stati Uniti. A dare voce, sia pure non esplicitamente, a questi scrupoli era stata, tra gli altri, la stessa cancelliera tedesca Merkel, quando la scorsa primavera, durante la campagna elettorale e nel pieno della polemica con Trump, annunciò la fine dell’era in cui, per le questioni legate alla difesa, “potevamo contare totalmente sugli altri”, cioè gli Stati Uniti. A suo dire, perciò, era giunto il momento di “prendere realmente il destino nelle nostre mani”.

 

Un riferimento indiretto alla possibile competizione tra PESCO e NATO affiora in parte anche nello stesso comunicato che ha seguito l’accordo di lunedì a Bruxelles. In esso si parla della necessità di aumentare le spese militari e di implementare gli altri progetti di difesa per “rafforzare l’autonomia strategica europea”, in modo da “agire indipendentemente quando necessario”, anche se “assieme ai partner quando possibile”.

 

Se i leader e la stampa europei hanno messo il maggiore impegno possibile nel minimizzare il potenziale destabilizzante della PESCO sui rapporti tra le due sponde dell’Atlantico, negli USA simili scrupoli hanno spesso lasciato il posto ad analisi più realistiche e allarmate. Il New York Times, ad esempio, nel parlare dell’impatto della recente visita di Trump in Estremo Oriente, ha attribuito ai governi europei la stessa attitudine di molti paesi asiatici, impegnati questi ultimi come i primi a “ricavare il massimo dal declino dell’egemonia americana e dalla nuova ripartizione in atto a livello globale del peso politico ed economico” delle varie potenze.

 

L’accordo sulla difesa comune, che dovrebbe essere formalizzato nel corso di un vertice UE di metà dicembre, dovrebbe anche servire, nelle intenzioni dei suoi principali promotori, a contenere le forze centrifughe da tempo evidenti a livello europeo. Ciò non comporta, tuttavia, un superamento delle divisioni e delle tensioni che caratterizzano anche i rapporti interni all’Unione.

 

Sulla struttura della PESCO vi era innanzitutto una diversità di vedute tra la Francia e la Germania. Parigi auspicava un progetto fondato su una sorta di club più ristretto che avrebbe dovuto includere solo i paesi con gli eserciti più importanti e quindi in grado di creare una forza agile ed efficiente facilmente utilizzabile in scenari di crisi. L’idea di Berlino, che ha finito per prevalere, è invece quella di coinvolgere il numero più alto possibile di paesi e di ampliare al massimo il ventaglio di progetti da perseguire in ambito militare.

 

Sulla stessa realizzazione dei propositi della PESCO peseranno inoltre le rivalità interne e i diversi obiettivi strategici dei paesi firmatari. Un analista di Carnegie Europe citato dal Financial Times ha rilevato ad esempio come la PESCO rischi di “scontrarsi o essere oscurato da iniziative separate nel quadro NATO o intraprese in maniera indipendente dai singoli paesi UE”.

 

Al di là della forma della PESCO, ciò che conta sono in ogni caso le forze che hanno agito sulla realizzazione di un progetto che è comunque ancora allo stadio iniziale. Nonostante le previsioni ottimistiche e le rassicurazioni dei leader europei, la creazione di un esercito comune non può che rappresentare uno strumento per l’imposizione con la forza degli interessi di una classe dirigente che, nell’ultimo decennio, ha presieduto a un processo di impoverimento di massa in numerosi paesi e al costante restringimento degli spazi democratici in nome della lotta al terrorismo.

 

L’impiego della forza militare congiunta potrebbe avvenire infine non solo all’estero, ma teoricamente anche all’interno degli stessi paesi europei. Un commento all’accordo di lunedì apparso sul sito del network russo RT ha spiegato che Bruxelles potrebbe volersi preparare a “significativi fenomeni di instabilità” in qualche paese dell’Unione. In uno scenario caratterizzato da gravi disordini sociali, un contingente internazionale altamente addestrato e con compiti di repressione potrebbe sostituire più efficacemente le forze di sicurezza dei singoli paesi.

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