La strategia del regime nordcoreano di Kim Jong-un sembra avere raggiunto un punto decisivo nello scontro in atto con gli Stati Uniti dopo il lancio, nella serata di martedì, di quello che è stato definito come il più efficace e completo missile balistico intercontinentale tra quelli finora testati dal paese dell’Asia nord-orientale.

 

L’ultima “provocazione” di Pyongyang è consistita nel test di un nuovo ordigno – Hwasong 15 – che ha volato per 960 km dopo avere toccato un’altezza di circa 4.500 km e prima di precipitare nelle acque a nord del Giappone. Con una traiettoria standard, il missile avrebbe potuto raggiungere una distanza di oltre 12 mila km, fino cioè alla costa orientale degli Stati Uniti.

 

Nonostante le ostentazioni della Corea del Nord, la stessa intelligence USA appare scettica circa la possibilità che il missile appena testato sia significativamente più potente del precedente, il Hwasong 14. Ancora maggiori incertezze ci sono poi a livello internazionale sulla capacità nordcoreana di installare sul nuovo missile una testata nucleare in grado di sopportare il rientro in atmosfera.

 

Malgrado ciò, i commenti della propaganda nordcoreana hanno descritto il test di martedì come una sorta di evento definitivo che, nelle parole dell’agenzia di stampa ufficiale KCNA, non solo permette teoricamente al regime di colpire tutto il territorio degli Stati Uniti, ma realizza “la grande causa storica del completamento delle forze nucleari” dello stato.

 

Che i proclami di Pyongyang corrispondano alla realtà o meno, il lancio di questa settimana sembra essere il tentativo da parte di Kim di proiettare un’immagine di forza ancora maggiore rispetto al solito. Ciò servirebbe presumibilmente a lanciare un segnale della sua disponibilità ad aprire una qualche trattativa diplomatica nel momento in cui la Corea del Nord sarebbe teoricamente giunta allo stesso livello degli Stati Uniti dal punto di vista del potenziale militare.

 

Per meglio dire, le capacità finalmente raggiunte dalla Corea del Nord ed esibite da Kim dovrebbero convincere l’amministrazione Trump a desistere dall’atteggiamento aggressivo tenuto finora e a intavolare un negoziato senza l’imposizione di condizioni preliminari.

 

Le intenzioni del regime sono state spiegate da un’analisi diffusa mercoledì dall’agenzia di rating S&P Global. Quest’ultima ha spiegato come la Corea del Nord “voglia la pace” e cerchi in ogni modo di “evitare un conflitto militare con gli Stati Uniti”, visto che tale eventualità si risolverebbe evidentemente nel cambio di regime a Pyongyang.

 

Dal punto di vista di Kim, i test missilistici servono a “rafforzare la posizione negoziale” del suo paese di fronte alle potenze rivali. Lo sviluppo del programma nucleare, soprattutto, è reso necessario dalla debolezza e scarsità di risorse delle forze armate convenzionali, chiaramente impotenti a fronteggiare un attacco dall’esterno. Da qui la necessità di costruire un deterrente nucleare che, tuttavia, difficilmente verrebbe impiegato contro gli Stati Uniti, anche nel caso risultasse effettivamente adeguato.

 

La stessa valutazione di S&P evidenzia però anche i rischi di una simile strategia, tanto più che essa si sovrappone a una condotta americana influenzata dalle dissennate politiche ultra-nazionaliste e marcatamente militariste dell’attuale governo USA, oltretutto in uno scenario segnato da un’amministrazione Trump in gravissima crisi sul fronte interno e dalla declinate influenza di Washington su scala globale.

 

Tutti questi fattori rischiano cioè di coagularsi fino a fare in modo che una qualsiasi nuova “provocazione” nordcoreana inneschi una reazione militare americana. Del grado di pericolo a cui è giunta la situazione nella penisola di Corea testimonia in primo luogo il massiccio dispiegamento di forze USA nella regione, assieme alle continue esercitazioni militari con Seoul e le stesse ripetute minacce del presidente Trump contro il regime di Kim.

 

A confermare la possibilità reale di un’aggressione americana contro la Corea del Nord è stato martedì anche l’influente senatore repubblicano Lindsey Graham, il quale in un’intervista alla CNN ha affermato che, “se le cose non dovessero cambiare”, si andrà verso una probabile guerra. Per il momento, le reazioni dei paesi coinvolti nella crisi coreana hanno ricalcato quelle seguite ai precedenti test di Pyongyang. Il presidente sudcoreano, Moon Jae-in, e il primo ministro giapponese, Shinzo Abe, si sono sentiti telefonicamente e si sono detti d’accordo sull’adozione di nuove sanzioni attraverso le Nazioni Unite.

 

Entrambi poi hanno ancora una volta chiesto alla Cina di aumentare le pressioni sull’alleato per farlo desistere da ulteriori azioni provocatorie. In una riunione di emergenza del Consiglio per la Sicurezza Nazionale sudcoreano, il presidente Moon avrebbe tuttavia espresso una certa preoccupazione per l’eventualità sempre più concreta di un “attacco preventivo”, quindi illegale, degli Stati Uniti contro Pyongyang. Moon avrebbe anche spiegato che il suo governo “dovrebbe evitare il crearsi di una situazione nella quale gli USA prendano in considerazione un attacco preventivo” contro la Corea del Nord.

 

A conferma dell’equilibrismo forzato di Seoul nella crisi, dovendosi muovere tra le necessità dell’alleanza con Washington e i tentativi di impedire una guerra a dir poco rovinosa, il primo ministro, Lee Nak-yon, mercoledì ha definito “irrealistica” l’ipotesi di colloqui con Pyongyang in questo momento. Allo stesso tempo, Lee ha respinto l’opzione militare per poi definire addirittura “diplomatica” la decisione di Kim di non puntare il nuovo missile balistico in direzione delle Hawaii o dell’isola di Guam, limitandosi a una “dimostrazione di forza” senza “provocare la comunità internazionale”.

 

La risposta del governo americano al test di martedì appare per il momento difficilmente decifrabile. Trump, nel corso di una conferenza stampa con il segretario alla Difesa, James Mattis, si è limitato a promettere che gli USA “si occuperanno della questione”. Il capo del Pentagono, da parte sua, ha ricordato nuovamente la presunta minaccia alla sicurezza globale rappresentata da Kim, riconoscendo la possibile maggiore portata del missile appena lanciato.

 

Il segretario di Stato, Rex Tillerson, ha invece assicurato che “le soluzioni diplomatiche restano per il momento percorribili” e che gli USA sono tuttora “impegnati a trovare una strada pacifica verso la denuclearizzazione e la fine delle azioni provocatorie della Corea del Nord”. Dopo le festività di Natale, ha aggiunto Tillerson, si terrà un vertice internazionale in Canada per discutere delle misure da adottare nel quadro della crisi coreana.

 

Quest’ultimo appuntamento suggerisce che per l’immediato Washington non stia considerando un attacco militare. Tuttavia, la strada per il negoziato appare sempre più stretta, soprattutto perché Washington continua a respingere l’unica proposta diplomatica seria attualmente sul tavolo, quella avanzata da Russia e Cina e che prevede il congelamento del programma nucleare e dei test missilistici di Kim in cambio della sospensione delle esercitazioni militari congiunte tra USA e Sudcorea.

 

A riprova di ciò, nel fine settimana prenderà il via una nuova manovra con centinaia di mezzi militari e migliaia di soldati, sostanzialmente allo scopo di preparare una possibile guerra contro la Corea del Nord. Queste operazioni continuano comprensibilmente a mettere in ansia il regime di Kim, già infuriato per la recente decisione di Trump di reinserire la Corea del Nord nella lista dei paesi che sostengono il terrorismo.

 

La conclusione logica che Pyongyang trae dalle iniziative americane è inevitabilmente – e di fatto correttamente – che Washington non ha nessuna intenzione di risolvere pacificamente la crisi, se non con la capitolazione totale del regime, e che perciò l’amministrazione Trump non può essere considerata un partner affidabile in un ipotetico futuro negoziato.

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