I tentacoli del “Russiagate” si stanno sempre più avvicinando al presidente americano Trump dopo che il suo ex consigliere per la Sicurezza Nazionale, Michael Flynn, ha raggiunto settimana scorsa un accordo con l’FBI. La notizia ha immediatamente moltiplicato i livelli di isteria dei media americani, pronti a giurare che la decisione dell’ex generale sarebbe il segnale della sua prossima intenzione di coinvolgere l’inquilino della Casa Bianca nello “scandalo” delle presunte collusioni con il governo di Mosca.

 

 

L’accordo tra Flynn e il capo delle indagini sul “Russiagate”, l’ex direttore dell’FBI Robert Mueller, dovrebbe portare all’utilizzo della testimonianza dell’ex generale per arrivare direttamente a Trump o a un uomo a lui molto vicino, come ad esempio il genero e consigliere Jared Kushner.

 

Il punto cruciale della vicenda sembra ruotare attorno al dubbio se Flynn abbia ricevuto o meno indicazioni da Trump o da qualcuno del suo staff per contattare, nel dicembre del 2016, l’ambasciatore russo negli USA, Sergey Kislyak, con cui lo stesso ex generale aveva intrattenuto alcune conversazioni telefoniche intercettate dai servizi segreti e oggi al centro dell’inchiesta.

 

Flynn era stato rimosso dal suo incarico dopo nemmeno un mese perché accusato di avere mentito al vice-presidente, Mike Pence, sul contenuto dei suoi colloqui con Kislyak. Flynn non aveva cioè riferito di avere chiesto a quest’ultimo un atteggiamento cauto da parte del Cremlino in risposta alle sanzioni contro la Russia appena implementate da Obama come ritorsione per la presunta interferenza di Mosca nelle elezioni del novembre precedente.

 

La questione si è complicata nel fine settimana, dopo che un avvocato di Trump è sembrato confermare che, a differenza di quanto sostenuto finora, il presidente repubblicano era a conoscenza del fatto che Flynn avesse mentito non solo a Pence, ma anche all’FBI. Se così fosse, i guai legali per Trump potrebbero farsi più seri, visto che ci sarebbero le basi per accusare il presidente di “intralcio alla giustizia”, un reato per il quale è teoricamente possibile aprire un procedimento di impeachment.

 

Come di consueto, lo stesso Trump non ha fatto nulla per limitare gli effetti dei nuovi sviluppi del “Russiagate”. In una raffica di “tweet” nel fine settimana, il presidente si è scatenato contro quella che ha definito una cospirazione ai suoi danni, prendendo poi di mira direttamente l’FBI, la cui reputazione ha definito “a pezzi”.

 

La teoria del complotto, sostenuta da Trump e dall’estrema destra dentro e fuori il Partito Repubblicano, ha peraltro trovato qualche conferma dopo che l’ex direttore Mueller si è visto costretto a licenziare un membro del suo team perché colpevole di avere scritto alcune e-mail critiche verso il presidente e favorevoli a Hillary Clinton.

 

Inoltre, qualche giorno fa il network ABC ha sospeso un suo reporter, responsabile di avere dato la notizia infondata che Trump aveva incaricato Flynn di entrare in contatto con esponenti del governo russo già nel corso della campagna elettorale e, quindi, presumibilmente per influenzare l’esito del voto.

 

La campagna del “Russiagate” continua a dunque a essere utilizzata come arma per colpire la Casa Bianca da parte di sezioni del governo e dell’apparato militare e dell’intelligence americano. Ciò è stato confermato ad esempio nel corso dei vari talk show della domenica mattina negli USA, in larga misura dedicati alla vicenda.

 

Il numero uno dei democratici nella commissione Servizi Segreti del Senato, Mark Warner, si è ad esempio detto sicuro che l’indagine di Mueller riserverà a breve altre sorprese, lasciando intendere che il prossimo passo potrebbe essere un’incriminazione direttamente all’interno della Casa Bianca. Il senatore della Virginia ha poi ribadito la sua fiducia nell’ex direttore dell’FBI, James Comey, licenziato bruscamente da Trump lo scorso maggio, il quale aveva rivelato come il presidente avesse fatto pressioni su di lui per lasciar cadere l’indagine in corso su Michael Flynn.

 

Con il progredire del “Russiagate”, in ogni caso, emerge sempre più il carattere artificioso delle accuse rivolte verso la Casa Bianca. Un fattore, quest’ultimo, collegato in definitiva alle intenzioni degli inquisitori di Trump, motivati non da scrupoli per l’ingerenza russa, di fatto mai provata, nei meccanismi politici americani, ma piuttosto dal tentativo di sabotare sul nascere qualsiasi ipotesi di riconciliazione tra Washington e Mosca.

 

A un’analisi anche superficiale degli ultimi sviluppi della vicenda, infatti, appare chiara l’inconsistenza delle accuse di collusione tra Trump e la Russia, soprattutto se esse vengono considerate in chiave elettorale. In primo luogo, una delle questioni principali discusse da Flynn con l’ambasciatore russo Kislyak riguardava in realtà Israele. Flynn intendeva cioè intercedere con Mosca per il premier israeliano Netanyahu, il quale aveva chiesto di bloccare una risoluzione di condanna della costruzione di nuovi insediamenti in Palestina al Consiglio di Sicurezza ONU.

 

Visto che l’amministrazione entrante di Trump non aveva la possibilità di incidere sulle scelte di Obama, il quale aveva insolitamente deciso di astenersi e quindi favorire l’approvazione della risoluzione, l’obiettivo era diventata la Russia. Flynn, in altre parole e con ogni probabilità su indicazione di Jared Kushner, stava cercando di convincere la Russia a muoversi per impedire il voto contro Israele all’ONU.

 

Ciò dimostra che, tutt’al più, la collusione fu tra Trump e Israele e non con la Russia, anche perché Mosca avrebbe finito col respingere la richiesta di Flynn. Inoltre, la questione nulla aveva evidentemente a che fare con le elezioni presidenziali americane tenute il mese precedente i fatti.

 

Ugualmente priva di implicazioni elettorali è l’altra questione sollevata dalle discussioni tra Flynn e Kislyak. In quest’ultimo caso, l’agitazione dei media “liberal” e del Partito Democratico è ancora più assurda, visto che la presunta “collusione” con Mosca non è stata altro che una legittima operazione diplomatica tra una nuova amministrazione, non ancora insediata, e un paese straniero con il quale cercava di rimettere in carreggiata le relazioni dopo il deterioramento registrato durante il mandato di Obama.

 

Di attività di questo genere ce ne sono molti esempi in passato e, oltretutto, il riavvicinamento a Mosca era stato uno dei punti del programma di politica estera presentato da Trump in campagna elettorale. Ugualmente chiaro è il fatto che anche in questo caso non esiste alcun legame con il tentativo di influenzare l’esito delle presidenziali americane.

 

Ciò che resta se mai da appurare, sempre che ciò abbia qualche effettiva rilevanza, è il motivo per cui Flynn abbia mentito nella sua ricostruzione dei colloqui avuti con l’ambasciatore russo. L’ipotesi più credibile è che avesse cercato di minimizzare l’importanza delle discussioni sia per non mettere a rischio i risultati eventualmente ottenuti sia per evitare di alimentare la polemica anti-russa che già si stava abbattendo sul presidente da poco eletto.

 

In qualsiasi caso, la rilevanza dei “crimini” in questione appare a dir poco esile e la stessa accusa rivolta a Flynn di avere mentito all’FBI, da cui potrebbe scaturire un’offensiva legale diretta contro Trump, non sembra avere implicazioni particolarmente gravi, se non nella misura in cui essa venga strumentalizzata a fini politici.

 

Ciononostante, l’onda del “Russiagate” minaccia di ingrandirsi ulteriormente nel prossimo futuro, rendendo ancora più esplosivo il clima politico americano, già segnato, tra l’altro, dal rischio concreto di nuove guerre in Medio Oriente e nella penisola di Corea e dal radicalizzarsi delle tendenze di estrema destra sul fronte domestico.

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