Proprio quando sembrava aprirsi all’orizzonte un possibile sbocco pacifico del sanguinoso conflitto in corso da oltre due anni in Yemen, la già drammatica situazione nel paese arabo è tornata a precipitare in seguito al fallimento delle ultime manovre dei regimi del Golfo Persico, sfociate lunedì con l’uccisione dell’ex presidente, Ali Abdullah Saleh.

 

 

Il nuovo impulso alla destabilizzazione della realtà yemenita era partito dai primi segnali di disintegrazione dell’incerta alleanza tra le forze fedeli allo stesso Saleh e i “ribelli” Houthi. Un’alleanza che aveva opposto finora una fierissima resistenza alla barbara aggressione militare guidata dall’Arabia Saudita e dagli Emirati Arabi con il pieno appoggio di Stati Uniti e Gran Bretagna.

 

Gli scontri tra le due fazioni alleate erano culminati sabato scorso con un appello pubblico di Saleh, rivolto agli autocrati di Riyadh e Abu Dhabi, per aprire un dialogo nel paese della penisola arabica, così da giungere a uno stop dei bombardamenti che hanno letteralmente distrutto buona parte delle infrastrutture dello Yemen e provocato la morte di più di diecimila persone.

 

Se per qualcuno i piani di Saleh non dovevano necessariamente prevedere un cambiamento di alleanze, i guerriglieri Houthi hanno di fatto interpretato la mossa come un tentativo di appoggiare gli sforzi sauditi per rovesciare il loro governo nel nord del paese e installare nuovamente un regime favorevole agli interessi del Golfo.

 

L’inversione di rotta di Saleh è stata effettivamente una scelta a dir poco azzardata, come ha confermato la fine a cui è andato incontro. La rottura con gli Houthis era stata infatti concordata con esponenti dei regimi dell’Arabia Saudita e degli Emirati Arabi. I tentativi di questi paesi di mettere fine a un conflitto costoso, sia finanziariamente sia in termini politici, prevedevano la possibile liquidazione del presidente yemenita da loro stessi riconosciuto come tale, Abd Rabbu Mansour Hadi, per trasferire il loro appoggio allo stesso Saleh o, forse, a uno dei suoi figli.

 

Questo piano è stato rivelato da un rapporto di Al Jazeera, supportato anche dalla notizia che circolava da tempo sulla possibile detenzione in Arabia Saudita del presidente Hadi. Per il network del Qatar, la soluzione studiata negli Emirati Arabi doveva garantire una via d’uscita dignitosa dal conflitto alle due monarchie sunnite, le quali speravano nel contempo di evitare un’ulteriore aggravamento dello scontro interno allo Yemen attraverso un una sorta di progetto federativo del paese.

 

La scommessa di Saleh si era ad ogni modo accompagnata a un’intensificazione dei bombardamenti sauditi contro le postazioni Houthis nella capitale yemenita, Sanaa, tradizionale roccaforte dell’ex presidente. Gli Houthis, la cui fede è assimilabile al ramo sciita dell’islamismo, avevano però risposto prontamente, tanto che già nella giornata di lunedì hanno annunciato di avere il controllo sull’intera città.

 

Proprio negli scontri tra gli Houthis e le forze fedeli a Saleh sarebbe rimasto ucciso quest’ultimo, colpito dal fuoco dei “ribelli” ex alleati mentre cercava di fuggire dalla capitale. Qualche commentatore ha ipotizzato che la sua fine sia stata causata anche dal mancato arrivo di rinforzi, presenti in numero consistente a poca distanza da Sanaa.

 

Se così fosse, Saleh avrebbe pagato a carissimo prezzo l’ennesima iniziativa dettata da un irriducibile opportunismo che gli aveva permesso di passare, tra l’altro, da dittatore dello Yemen appoggiato dall’Occidente per tre decenni a burattino dei sauditi, dopo la rivolta popolare che lo depose tra il 2011 e il 2012, a partner militare, sul fronte opposto degli ex alleati, di quei “ribelli” Houthis contro cui aveva combattuto varie guerre in passato.

 

L’eventuale concretizzarsi del piano studiato da Saleh e dai regimi del Golfo, responsabili della devastazione dello Yemen, non avrebbe ovviamente portato a nessuna soluzione accettabile per la popolazione di questo paese. Tuttavia, la morte del 75enne ex presidente rischia, se possibile, di aggravare ancora di più le sorti del conflitto.

 

Uno dei figli di Saleh ha già inneggiato alla vendetta conto gli Houthis e, con ogni probabilità, i sauditi decideranno di punire ulteriormente i loro oppositori in Yemen, tanto più essendo stati privati dell’elemento centrale su cui sembrava potersi fondare la loro “exit strategy” da un conflitto virtualmente senza soluzione.

 

La guerra in Yemen si è trasformata in meno di tre anni nella catastrofe umanitaria di gran lunga più grave tra quelle attualmente in corso nel pianeta. La vastità dei crimini dei regimi che l’hanno provocata, così come dei governi occidentali che assicurano supporto logistico e militare, è difficile da sopravvalutare. Come denunciano da tempo le Nazioni Unite e le organizzazioni umanitarie, oltre ai morti ci sono milioni o decine di milioni di persone a rischio carestia, che risultano esposti a gravissime malattie, tra cui il colera, e che non hanno accesso a farmaci e cure mediche fondamentali.

 

La situazione, già disastrosa, si era aggravata qualche settimana fa dopo che Riyadh aveva imposto un blocco totale all’ingresso di qualsiasi fornitura nel paese come ritorsione per il lancio di un singolo missile da parte degli Houthis, intercettato e presumibilmente distrutto mentre si dirigeva verso l’aeroporto della capitale saudita. L’embargo è stato alla fine parzialmente allentato per limitare i contraccolpi dell’orrore suscitato nell’opinione pubblica internazionale.

 

Morte, stenti e devastazione sono stati imposti alla popolazione yemenita per la difesa degli interessi strategici dell’Arabia Saudita e dei suoi alleati. La guerra era iniziata in risposta al rovesciamento nel 2015 del regime di Hadi da parte dell’esercito Houthis, una minoranza stanziata nel nord del paese a lungo emarginata e tagliata fuori dal processo-farsa di transizione seguito alla rivolta del 2011-2012.

 

Dopo l’uscita di scena forzata di Saleh sull’onda delle proteste popolari nell’ambito della “primavera araba”, Washington e Riyadh avevano per così dire mediato una soluzione diplomatica, promuovendo un’elezione presidenziale con Hadi come unico candidato.

 

L’intervento nella crisi politica di USA e Arabia Saudita era dettato dagli stessi motivi che avrebbero in seguito portato all’aggressione militare contro lo Yemen. L’obiettivo, cioè, era e rimane quello di garantire un regime favorevole ai loro interessi in questo paese dall’importanza strategica fondamentale, impedendo nel contempo la penetrazione dell’influenza iraniana.

 

In questo scenario, gli Houthis vengono costantemente accostati alla Repubblica Islamica, del cui governo rappresenterebbero il braccio armato nello Yemen. I legami tra Teheran e gli Houthis sono in realtà tutt’al più esili e, al contrario di quanto sostengono i sauditi, non vi sono praticamente prove del fatto che l’Iran fornisca armi in maniera regolare ai “ribelli” yemeniti. Ciò sarebbe d’altra parte quasi impossibile, visto il blocco imposto ai confini del paese.

 

Alla luce di quanto accaduto negli ultimi giorni, l’evoluzione del conflitto in Yemen dipenderà dagli effetti che si produrranno in seguito alla morte di Ali Abdullah Saleh. Se questo evento imprevisto favorirà cioè la caduta degli Houthis o se il possibile intensificarsi dell’impegno saudita finirà per prolungare lo stallo militare e le sofferenze della popolazione civile.

 

Già prevedibile è invece il probabile aumento delle pressioni sull’Iran a causa della presunta aggressività di questo paese nello Yemen e in tutto il Medio Oriente. Anche il conflitto in corso nel più povero dei paesi arabi è d’altra parte inscrivibile nel quadro della sempre più accesa campagna anti-iraniana e anti-sciita alimentata dagli Stati Uniti e dai regimi sunniti loro alleati.

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