A giudicare dalla campagna orchestrata negli ultimi mesi dalla classe politica e dai principali media dell’Australia, il paese del continente oceanico sarebbe niente meno che sul punto di diventare una sorta di colonia cinese. L’operazione di propaganda in atto ha raggiunto livelli simili a quelli registrati negli Stati Uniti riguardo le presunte interferenze russe e, in maniera preoccupante, come quest’ultima campagna anche quella australiana affonda le proprie radici principalmente nei preparativi di guerra del governo di Washington contro i propri principali rivali strategici internazionali.

 

 

L’escalation della caccia alle streghe anti-cinese in Australia prosegue da tempo con una serie continua di iniziative, culminate nel fine settimana con la pubblicazione sul quotidiano The Australian di un inquietante rapporto dei servizi segreti (ASIO, Australian Security and Intelligence Organisation). Questi ultimi avrebbero cioè identificato una decina di candidati a cariche politiche a livello statale e locale con possibili “stretti legami ai servizi di intelligence cinesi”.

 

Il reclutamento di questi politici, secondo l’ASIO, rientrerebbe in una “strategia deliberata di Pechino per esercitare la propria influenza” in Australia. Per mettere in chiaro che la minaccia non è in nessun modo circoscritta a una manciata di candidati, i servizi di sicurezza australiani sostengono di avere fondati sospetti anche riguardo ad altri politici attivi a livello federale. Anzi, The Australian assicura che almeno uno di questi candidati è stato eletto all’incarico a cui aspirava e occupa tuttora il proprio posto.

 

Come accade invariabilmente negli USA con le rivelazioni sulle collusioni tra esponenti dell’amministrazione Trump e la Russia, anche nel caso dell’Australia il più recente rapporto dell’intelligence è di fatto privo di prove concrete che dimostrerebbero le azioni cinesi. A Canberra come a Washington, perciò, accuse gravissime contro determinati esponenti politici devono essere considerate vere e incontrovertibili solo perché sollevate dai servizi segreti.

 

Significativo è poi il fatto che i politici australiani presumibilmente al servizio della Cina non vengano nominati dal rapporto dell’ASIO né dal quotidiano australiano.

La vaghezza delle accuse, assieme agli ultimi sviluppi della campagna anti-cinese, servono in sostanza a far sapere all’intera classe politica australiana che chiunque potrebbe essere bollato come agente di Pechino, se ce ne fossero le condizioni.

 

Queste, com’è evidente, hanno a che fare in primo luogo con gli scenari strategici relativi all’Australia. A finire cioè sotto la mannaia della propaganda maccartista in versione australiana potrebbe essere qualsiasi politico che sostenga una linea considerata troppo tenera sulla questione dei rapporti con la Cina. Da un’altra prospettiva, una campagna di demonizzazione se non accuse di tradimento attendono più o meno chiunque si rifiuti di adeguarsi alla linea anti-cinese imposta da Washington alla classe dirigente australiana.

 

Che ciò corrisponda a realtà è confermato dai guai in cui è finito da qualche settimana il senatore del Partito Laburista, Sam Dastyari, vittima di una campagna politica e mediatica che gli è costata la posizione di vice-leader dell’opposizione. La colpa di Dastyari è quella di non essersi unito al coro di denunce delle rivendicazioni territoriali e marittime di Pechino nel Mar Cinese Meridionale, ma di averne sostanzialmente riconosciuto la validità o, per meglio dire, di avere mantenuto una posizione neutrale sulla questione.

 

L’assurdità della campagna in atto è apparsa poi chiara dall’accusa rivolta a Dastyari di essere un’agente cinese perché responsabile di avere fornito “consigli di contro-sorveglianza” all’imprenditore edile cinese, Huang Xiangmo, dal quale avrebbe anche ricevuto donazioni per la sua attività politica. Il crimine del senatore laburista consiste nell’avere informato Huang della possibilità che le loro comunicazioni fossero intercettate dai servizi segreti australiani quando, durante un incontro, i due avevano lasciato i loro cellulari nell’edificio dove si erano dati appuntamento, in modo da conferire privatamente in uno spazio aperto. Proprio a Sam Dastyari il primo ministro conservatore, Malcolm Turnbull, ha fatto riferimento settimana scorsa in un intervento pubblico volto ad alimentare le tendenze xenofobe a favore dell’agenda del suo governo in grave crisi politica sul fronte interno.

 

L’innalzamento della retorica anti-cinese a Canberra giunge in concomitanza con l’adozione di nuove misure che dovrebbero appunto limitare l’influenza di potenze straniere sulla politica australiana. Sempre la settimana scorsa, il governo Turnbull aveva infatti annunciato una nuova legge che introduce, tra l’altro, un apposito registro di “agenti stranieri”, sull’esempio di quello in vigore negli USA. Inoltre, i nuovi provvedimenti vieteranno ogni tipo di finanziamento estero a beneficio di attività politiche svolte in Australia, mentre i reati di tradimento e spionaggio saranno ampliati e le pene connesse aumenteranno fino a prevedere l’ergastolo.

 

Già da qualche mese la classe politica australiana è scossa poi da un altro caso connesso alla campagna anti-cinese, anche se talvolta in maniera indiretta. Numerosi membri del Parlamento federale hanno perso il loro seggio o rischiano di perderlo perché non hanno dichiarato né rinunciato alla doppia cittadinanza, pur non essendo spesso nemmeno al corrente del loro status.

 

Lo “scandalo” deriva da una norma costituzionale profondamente anti-democratica in un paese nel quale si stima che circa la metà della popolazione abbia almeno un genitore nato all’estero. Sulla vicenda è intervenuta anche la Corte Suprema australiana, la quale ha definito incompatibile la doppia cittadinanza con l’occupazione di un seggio in Parlamento.

 

Il caso ha coinvolto alcuni politici di altissimo livello, tra cui il vice-primo ministro Barnaby Joyce, costretto alle dimissioni, mettendo a rischio la stessa maggioranza di governo. Con il crescere della polemica, il gabinetto Turnbull ha alla fine imposto a tutti i membri del Parlamento di auto-certificare lo status relativo alla propria nazionalità.

 

Anche questo episodio è stato orchestrato per criminalizzare qualsiasi legame o atteggiamento che possa essere ritenuto “sleale” nei confronti dello stato australiano. Se pure la doppia cittadinanza riguarda in prevalenza paesi come Nuova Zelanda o Gran Bretagna, non sono mancati casi relativi alla Cina, di fatto obiettivo principale di questa operazione di propaganda.

 

La massiccia caccia alle streghe anti-cinese in corso in Australia non solo è appoggiata in pieno dagli Stati Uniti, ma è con ogni probabilità anche guidata da Washington. L’intervento americano nelle vicende politiche dell’alleato non è cosa nuova, basti pensare alla rimozione con un colpo di stato interno al “Labor” del primo ministro Kevin Rudd nel 2010 perché considerato troppo conciliante nei confronti della Cina. Inoltre, leader politici americani e membri dell’amministrazione Trump sono stati protagonisti di numerose visite in Australia negli ultimi mesi, mentre l’ambasciatore USA a Canberra, Joe Hockey, è intervenuto ripetutamente nel dibattito sull’influenza cinese nel paese, dimostrando l’approvazione americana per la campagna in atto.

 

Se i fatti di questi mesi vedono quasi tutta la classe politica australiana allineata alle posizioni anti-cinesi di Washington, è altrettanto vero che una parte di essa e del business ritiene rischioso l’atteggiamento intransigente nei confronti di Pechino adottato dal governo di Canberra. I motivi di queste apprensioni sono soprattutto di natura economica, visto che la Cina è il primo partner commerciale dell’Australia, così come gli investimenti diretti di Pechino nel paese dell’Oceania e, ad esempio, l’afflusso dei turisti cinesi hanno un peso ormai enorme.

 

Le manovre di Washington e del governo Turnbull rischiano quindi di far precipitare i rapporti tra Canberra e Pechino, come dimostrano le durissime reazioni cinesi agli ultimi eventi accaduti in Australia. Tanto più che la campagna anti-cinese alimentata dagli USA è legata direttamente agli sforzi americani di allineare alle proprie posizioni strategiche gli alleati in Estremo Oriente proprio in previsione di un conflitto con la Cina o, in un futuro più immediato, con la Corea del Nord.

 

Una guerra con qualunque di questi due paesi avrebbe conseguenze rovinose probabilmente per tutto il pianeta e, ancor più, per gli alleati americani nella regione, come appunto l’Australia, ormai legati in maniera più profonda a Pechino che a Washington sul piano economico, commerciale e finanziario.

Pin It

Altrenotizie.org - testata giornalistica registrata presso il Tribunale civile di Roma. Autorizzazione n.476 del 13/12/2006.
Direttore responsabile: Fabrizio Casari - f.casari@altrenotizie.org
Web Master Alessandro Iacuelli
Progetto e realizzazione testata Sergio Carravetta - chef@lagrille.net
Tutti gli articoli sono sotto licenza Creative Commons, pertanto posso essere riportati a condizione di citare l'autore e la fonte.
Privacy Policy | Cookie Policy