L’evoluzione del conflitto in Siria sta sempre più rafforzando la posizione della Russia di Putin in Medio Oriente, mettendo allo stesso tempo gli Stati Uniti in una situazione difficilmente sostenibile. La trasferta di questa settimana del presidente russo ha ancora una volta sottolineato le dinamiche in atto nella regione, se possibile accentuate dalla recente decisione di Donald Trump di riconoscere Gerusalemme come capitale dello stato di Israele.

 

Per comprendere gli spostamenti degli equilibri mediorientali è utile scorrere analisi e commenti apparsi in grande quantità sui media ufficiali americani negli ultimi giorni. Quasi ovunque traspare risentimento e irritazione per la gestione di una crisi, come quella siriana, da parte sia di Obama che di Trump, considerata troppo cauta o confusionaria e che ha lasciato perciò spazio alla penetrazione del Cremlino nelle vicende del vicino oriente.

 

Già l’incontro di Putin con il presidente turco Erdogan ad Ankara, l’ottavo soltanto nel corso del 2017, ha evidenziato di nuovo la svolta clamorosa delle relazioni tra i due paesi, in parallelo al divergere dei percorsi tra gli Stati Uniti e l’alleato euro-asiatico della NATO. La collaborazione tra Russia e Turchia nel quadro dei colloqui di pace di Astana sulla Siria, lanciati assieme all’Iran, è la principale conferma dei nuovi scenari, determinati in larga misura dall’appoggio di Washington alle forze curde.

 

La visita di Putin è servita poi anche a spingere verso la fase finale i negoziati per la delicatissima fornitura alla Turchia del sistema russo di difesa anti-aereo S-400. Questo accordo rappresenta un altro motivo di tensione tra Ankara e l’Occidente, poiché l’S-400 non potrà essere integrato nel sistema difensivo della NATO.

 

La marginalizzazione del ruolo americano in Medio Oriente è anche direttamente connessa ai tentativi di Erdogan di sfruttare il polverone suscitato da Trump con la già ricordata decisione su Gerusalemme per promuovere il suo governo come autentico difensore della causa palestinese. Il presidente turco questa settimana sarà protagonista di una riunione di emergenza dell’Organizzazione della Cooperazione Islamica (OCI), convocata appunto per delineare una strategia d’azione relativamente alla questione di Gerusalemme. La crisi scaturita dalla presa di posizione di Trump sta dando dunque credibilità non solo alla Turchia, ma anche all’Iran e a Hezbollah, vale a dire paesi e organizzazioni in buoni se non ottimi rapporti con Mosca, a discapito degli Stati Uniti e dei loro alleati nella regione, a cominciare dall’Arabia Saudita.

 

Ad avere maggiore risonanza nel viaggio di Putin è stato il suo stop a sorpresa in Siria, dove ha incontrato il presidente Assad e annunciato che la missione militare russa in questo paese sarebbe di fatto ultimata. Putin ha proclamato la “completa vittoria” sui terroristi dello Stato Islamico (ISIS), così che una parte consistente del contingente russo stanziato in Siria sarà a breve rimpatriato.

 

Sempre per quanto riguarda la promozione degli interessi strategici di Mosca in aree fino a ora di competenza quasi esclusiva degli Stati Uniti, l’incontro al Cairo tra Putin e il dittatore egiziano Abdel Fattah al-Sisi è nuovamente emblematico. Da almeno un paio d’anni i rapporti tra Russia ed Egitto hanno imboccato una parabola ascendente in concomitanza con un certo raffreddamento di quelli tra il Cairo e Washington.

 

I due leader hanno affrontato l’argomento, su cui preme soprattutto l’Egitto, del ristabilimento dei voli commerciali tra i due paesi, sospesi da Mosca dopo l’attentato del 2015 al velivolo della compagnia russa Metrojet, partito da Sharm el-Sheikh, che provocò la morte delle 224 persone a bordo.

 

Putin e Sisi hanno anche sottoscritto un contratto per la costruzione in Egitto da parte della compagnia russa Rosatom di una centrale nucleare da 30 miliardi di dollari. Piuttosto avanzati sembrano inoltre i negoziati che dovrebbero consentire all’aviazione militare russa l’utilizzo di basi in territorio egiziano. I due paesi sono infine sulla stessa lunghezza d’onda in Libia. Nel paese devastato dall’intervento del 2011, promosso da USA, Francia e Gran Bretagna, il governo russo e quello egiziano appoggiano entrambi la fazione guidata dal generale Khalifa Hiftar, principale forza che si oppone all’esecutivo riconosciuto dall’ONU e dall’Occidente.

 

Lo scenario più caldo nella crescente competizione tra USA e Russia in Medio Oriente resta comunque per il momento la Siria. La mossa di questa settimana di Putin è in parte dettata da esigenze di politica interna, come conferma il fatto che l’annuncio del ritiro delle truppe russe impegnate in Siria è arrivato praticamente poche ore dopo la notizia della nuova candidatura del numero uno del Cremlino alle elezioni presidenziali del 2018.

 

Putin ha ad ogni modo cercato di raccogliere quanto seminato in maniera indubbiamente abile in Siria e non solo, gettando forse le basi per una certa stabilizzazione del Medio Oriente, quanto meno nelle intenzioni. La dichiarazione di quasi cessazione delle ostilità in Siria può essere cioè letta come un segnale del disinteresse russo nel forzare la mano dopo i successi militari e, anzi, dell’intenzione di promuovere un dialogo pacifico in vista di un processo di transizione aperto a tutte le parti in causa, terroristi esclusi.

 

Questa strategia scaturisce quasi naturalmente dai principi che guidano la politica estera russa, i cui interessi sembrano passare attraverso la costruzione di rapporti cordiali con i governi impegnati dall’una e dall’altra parte delle barricate che dividono oggi il Medio Oriente. Se, ad esempio, la Russia è il principale sponsor del governo siriano, del quale ne ha permesso di fatto la sopravvivenza, allo stesso tempo conserva relazioni tutt’altro che tese con i paesi più o meno attivi sul fronte opposto, come Israele, Arabia Saudita o le stesse milizie curde.

 

La visione di Putin in relazione alla guerra in Siria appare comunque eccessivamente ottimistica, anche se la stessa leadership russa è cosciente degli ostacoli che rimangono sulla strada della pacificazione del paese di Assad e dell’intera regione mediorientale. In ogni caso, Putin ha avvertito che la Russia tornerà a colpire i terroristi, qualora dovessero “rialzare la testa”, mentre la Siria continuerà ad ospitare basi di Mosca almeno a Tartus e a Khmeimim, presso la città costiera di Latakia.

 

Gli Stati Uniti hanno da parte loro risposto alle parole pronunciate in Siria da Putin con la conferma che il proprio impegno non verrà influenzato da quanto deciso a Mosca. Qualche giorno fa, i vertici militari americani avevano d’altra parte rivelato che le forze USA dispiegate in Siria ammontano almeno a duemila uomini, una cifra cioè ben superiore a quella riconosciuta finora in maniera ufficiale.

 

La presenza americana in Siria, a tutti gli effetti illegale e ingiustificata anche considerando il punto di vista dello stesso governo USA, costituisce un rischio persistente per questo paese, dal momento che l’avanzata delle forze di Damasco con l’appoggio di quelle russe rende sempre più concreto uno scontro diretto tra le due potenze impegnate nel conflitto.

 

Proprio nei giorni scorsi, i governi di Mosca e Washington si erano scambiati accuse per avere messo in atto provocazioni nei cieli della Siria, tanto che il Pentagono aveva avvertito di possibili abbattimenti di velivoli russi. Lo stesso presidente Trump ha indirizzato poi una lettera al Congresso americano nella quale ha ammesso che le forze del suo paese, ufficialmente impegnate contro l’ISIS, hanno già condotto “un numero limitato di bombardamenti” contro obiettivi governativi in Siria e ciò, secondo l’inquilino della Casa Bianca, sarebbe del tutto “legittimo”.

 

Se l’ISIS in Siria sembra quasi del tutto sconfitto, un altro fronte in fase di apertura nel paese potrebbe inoltre portare la situazione oltre il punto di rottura. Mosca e Damasco hanno già annunciato di puntare sulla provincia di Idlib, dove il controllo è in larga misura nelle mani della filiale di al-Qaeda in Siria, oggi denominata Hayat Tahrir al-Sham. In quest’area operano “asset” americani e sauditi, evidentemente minacciati da un’offensiva russo-siriana.

 

La questione cruciale dei prossimi mesi sarà ad ogni modo legata alla reazione degli Stati Uniti al processo di emarginazione che essi stanno attraversando, a causa sia delle iniziative russe sia, e forse ancora di più, delle contraddizioni delle proprie politiche. Tanto più che la crisi siriana si intreccia pericolosamente all’offensiva avviata dall’amministrazione Trump contro l’Iran.

 

Se la realtà sul campo emersa rende sempre meno legittima e, anzi, dannosa e destabilizzante la presenza americana in Siria e nel resto del Medio Oriente, la necessità di difendere i propri interessi strategici e la competizione con Mosca, ma anche con Pechino, rendono altamente improbabile un qualche disimpegno pacifico degli Stati Uniti. Al contrario, le tendenze in atto rischiano di alimentare le tensioni e di spingere la regione verso conflitti ancora più gravi e sanguinosi di quelli registrati in questi ultimi anni.

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