I continui rialzi da record degli indici di borsa americani e i negoziati finali al Congresso di Washington per l’approvazione di una “riforma” fiscale destinata a beneficiare i redditi più elevati si sono accompagnati in questi giorni alla pubblicazione di un rapporto ONU sulla povertà estrema negli Stati Uniti che ha suscitato poco o nessun interesse tra la classe politica e i media ufficiali.

 

 

Lo studio è il risultato di un viaggio di due settimane, fatto dal relatore ONU sulla povertà estrema e i diritti umani, l’accademico australiano Philip Alston, in quattro stati americani (California, Alabama, Georgia, West Virginia), nella capitale, Washington DC, e nel “territorio non incorporato” di Porto Rico, recentemente devastato dall’uragano Maria.

 

La realtà vista e raccontata da Alston è ben diversa da quella propagandata quotidianamente dal governo americano. La crescita economica e i profitti crescenti di banche e corporation non fanno cioè nulla per alleviare le condizioni di vita spesso da terzo mondo di decine di milioni di persone e, anzi, continuano ad aggravare il processo di polarizzazione economica e sociale in atto da tempo negli USA come altrove. In definitiva, scrive l’inviato delle Nazioni Unite, “gli Stati Uniti sono uno dei paesi più ricchi, potenti e tecnologicamente innovativi; ma né la loro ricchezza né il potere o la tecnologia sono indirizzati al miglioramento di una situazione che continua a costringere 40 milioni di persone a una vita di povertà”.

 

Le conclusioni dell’indagine di Alston sono contenute nell’introduzione al rapporto pubblicata solo da una manciata di testate in tutto il mondo, tra cui il britannico Guardian. In questa premessa, il relatore ONU dipinge il quadro di devastazione sociale da lui osservato direttamente: dalle persone “che sopravvivono a malapena sullo Skid Row a Los Angeles” alle “migliaia di poveri che ricevono multe per infrazioni trascurabili e che sembrano fatte apposta per trasformarsi rapidamente in debiti impossibili da pagare o in detenzioni”; dalle “fognature a cielo aperto in stati dove i governi locali ritengono che le infrastrutture sanitarie non siano una loro responsabilità” alle “persone che hanno perso tutti i loro denti perché l’assistenza dentistica non è coperta dai programmi sanitari destinati ai più poveri”.

 

Il rapporto di Alston non risparmia critiche che vanno al cuore delle cause degli scenari da lui delineati, ovvero deliberate politiche di classe che dirottano risorse economiche cruciali verso il vertice della piramide sociale americana. Come egli stesso ricorda, ad esempio, la sua visita “è coincisa con un drammatico cambiamento di direzione delle politiche USA relative alle disuguaglianze e alla povertà estrema”.

 

Il riferimento è alla “proposta di riforma del sistema fiscale”, voluta dal presidente Trump, che minaccia di fare degli Stati Uniti “la società più iniqua del pianeta”. Gli imminenti nuovi tagli alle tasse per i più ricchi saranno inoltre seguiti a breve, come hanno apertamente ammesso svariati leader repubblicani, dalla “liquidazione di una rete di welfare già piena di buchi”.

 

Pur alimentando l’illusione della possibilità di riformare il sistema che ha prodotto la situazione descritta nel suo rapporto, Alston lascia intendere chiaramente come essa sia determinata dal capitalismo stesso. Ciò è evidente dalla conclusione che il governo americano non riconosce “il diritto a non morire di fame, a non morire per il mancato accesso a cure mediche economicamente sostenibili o a non dovere crescere in un contesto di totale povertà”.

 

Tutte le amministrazioni americane succedutesi negli ultimi decenni, “inclusa quella attuale”, hanno d’altra parte “respinto con decisione l’idea che i diritti economici e sociali siano a tutti gli effetti diritti umani”.

 

Il risultato sono 41 milioni di americani costretti a vivere al di sotto della soglia ufficiale di povertà, 18,5 milioni dei quali in stato di estrema povertà e, addirittura, 9 milioni senza un solo dollaro di entrate e con nessun genere di assistenza o sostegno.

 

Questa sorta di “eccezionalismo” al contrario della prima potenza economica del pianeta, dove è palese il “contrasto tra la ricchezza e le capacità innovative da un lato e i risultati ottenuti sul piano sociale dall’altro”, fa in modo che gli Stati Uniti debbano oggi fare i conti con una realtà drammatica, evidenziata da numerose statistiche.

 

L’introduzione al rapporto di Philip Alston si conclude così con l’elenco di una serie di indicatori che chiariscono senza equivoci quali siano i beneficiari e gli esclusi dall’immensa ricchezza prodotta negli Stati Uniti.

Gli Stati Uniti hanno ad esempio il tasso di mortalità infantile più alto di tutti i paesi a economia avanzata. L’aspettativa di vita media degli americani è poi la più bassa rispetto a quella degli abitanti delle altre “democrazie ricche”. Ancora, gli USA occupano il 36esimo posto a livello globale in termini di accesso ad acqua e servizi igienici.

Quest’ultima carenza è stata riscontrata recentemente nella diffusione di patologie causate da parassiti intestinali nella contea di Lowndes, nello stato dell’Alabama, dove si trovano ancora oggi molte fognature a cielo aperto. Nella California meridionale, invece, almeno dalla scorsa estate è esplosa un’epidemia di epatite A, partita da San Diego e responsabile finora della morte di 21 persone, gran parte delle quali senzatetto.

 

Il quadro parziale delineato da Alston è completato inoltre dal tasso di incarcerazione più alto del mondo e quasi cinque volte superiore alla media dei paesi OCSE. La povertà giovanile tocca il 25% negli USA, contro una media appena inferiore al 14% registrata sempre tra i membri dell’OCSE.

 

Sul fronte delle disuguaglianze la musica non è differente. Secondo uno studio dell’università di Stanford, gli Stati Uniti sono gli ultimi tra i dieci paesi più ricchi del mondo per numero di poveri, qualità del welfare, disparità economiche e mobilità sociale. Lo stesso OCSE classifica l’America al 35esimo posto su 37 per quanto riguarda i dati relativi a povertà e disuguaglianze.

 

Un’ulteriore osservazione di Alston rende infine il suo rapporto particolarmente incisivo e lo pone, in maniera meritevole, al di fuori dei parametri degli ambienti “liberal” americani. Secondo l’inviato dell’ONU, cioè, il fattore che determina il dilagare della povertà e dell’estremo disagio sociale negli USA non ha a che fare con questioni di razza, bensì di classe.

 

Anche se la popolazione di colore risulta spesso particolarmente penalizzata, soprattutto negli stati del sud, Alston sottolinea come in America vi siano “8 milioni di poveri bianchi in più rispetto a quelli neri”. Allo stesso modo, “il 31% dei bambini in condizioni di povertà sono bianchi, mentre quelli afro-americani sono il 24% e gli ispanici il 36%”.

 

La situazione disastrosa ratificata per gli Stati Uniti addirittura dall’ONU, come già anticipato, non ha nemmeno lontanamente suscitato tra politici e media l’indignazione che avrebbe meritato. Anzi, il rapporto è passato in sostanza sotto silenzio.

 

Gli interessi di classe a cui fanno riferimento il Congresso e il governo escludono d’altra parte qualsiasi impegno anche modesto a favore delle decine di milioni di poveri americani. A Washington, infine, dopo i tagli alle tasse per i ricchi è già allo studio la drastica ristrutturazione dei rimanenti programmi pubblici di welfare. Questo nuovo imminente assalto alle condizioni di vita delle classi più disagiate rischierebbe infatti di complicarsi se il dibattito pubblico negli USA dovesse concentrarsi seriamente sull’emergenza sociale appena sfiorata dal rapporto delle Nazioni Unite.

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