A quasi una settimana dall’inizio delle proteste che stanno avendo luogo in alcune delle principali città dell’Iran, i contorni e la natura delle manifestazioni ampiamente riportate dai media occidentali continuano a non essere del tutto chiari. Ciò che è evidente e poco sorprendente è invece il tentativo esplicito del governo americano di politicizzare gli eventi in corso per inglobarli in una strategia sempre più aggressiva diretta contro la Repubblica Islamica.

 

 

Le ragioni del malcontento che avrebbero fatto scoppiare la protesta in Iran sono interamente legittime. I livelli di povertà e di disoccupazione restano piuttosto elevati e, anche a causa dell’atteggiamento degli Stati Uniti, non hanno risentito in maniera positiva dell’entrata in vigore dell’accordo sul nucleare iraniano, che avrebbe dovuto ristabilire normali relazioni economiche con l’Occidente e il resto del mondo.

 

Nonostante un sistema politico di gran lunga più aperto e partecipativo rispetto a molti vicini arabi, le libertà individuali sono tuttora compresse da un sistema ufficialmente teocratico. La corruzione viene poi percepita come endemica e le disuguaglianze nella distribuzione della ricchezza hanno creato una situazione simile se non peggiore a quella dei paesi occidentali.

 

Su queste problematiche in ambito economico influiscono le politiche di stampo neo-liberista, almeno a livello teorico, del presidente, Hassan Rouhani, il cui governo ha accentuato una tendenza già emersa chiaramente nel corso del secondo mandato del suo predecessore, il populista Mahmoud Ahmadinejad.

I bilanci degli ultimi anni sono stati infatti contrassegnati da misure varie dirette, tra l’altro, a ridurre i popolari sussidi statali che mantenevano bassi i prezzi dei beni di prima necessità, con il risultato di colpire pesantemente le classi più disagiate.

 

Le politiche economiche del moderato/riformista Rouhani sono spesso oggetto di critiche anche da parte dell’establishment conservatore iraniano. La stessa guida suprema, ayatollah Ali Khamenei, ha più volte invitato il governo a fare di più per risolvere problemi come inflazione e disoccupazione, ben sapendo del potenziale esplosivo delle tensioni sociali prodotte da neo-liberismo e austerity.

 

Con queste premesse, risultano più che comprensibili le manifestazioni di questi giorni, in parte simili ad altre che hanno luogo saltuariamente in Iran e che sono quasi sempre limitate all’ambito economico.

 

Già sulla spontaneità del movimento di protesta che sta attraversando in questi giorni la Repubblica Islamica ci sono tuttavia molti dubbi. Alcuni giornalisti e commentatori anche in Iran hanno ad esempio ipotizzato che le dimostrazioni siano state istigate dai conservatori rivali di Rouhani con l’obiettivo di indebolire il suo governo.

 

Ancora più probabile è che siano in atto interferenze straniere, se non in maniera diretta quanto meno attraverso gruppi e individui legati a organizzazioni tradizionalmente utilizzate dai governi occidentali e dagli alleati di Washington in Medio Oriente per attività destabilizzanti in territorio iraniano.

 

Oltre ai curdi vanno ricordati i terroristi di Jundallah, i “ribelli” della provincia iraniana del Baluchistan già al servizio di CIA e Mossad, e i cosiddetti Mujahedin-e-Khalq (MEK). Questi ultimi hanno in particolare già espresso il loro appoggio alle proteste, utilizzando la rete per cercare di dirottarle verso una possibile battaglia contro il regime.

 

Le manifestazioni sono apparse finora relativamente limitate nel numero dei partecipanti, ma alcuni episodi di violenza, come un paio di attacchi nelle ultime ore contro edifici delle forze di sicurezza, sembrano suggerire la presenza di elementi determinati a radicalizzare lo scontro e a provocare la reazione del regime.

 

Complessivamente, fino ad ora si contano una ventina di morti, mentre incerto è il numero dei manifestanti arrestati. Secondo alcune fonti ufficiali, solo nella provincia di Teheran i detenuti sarebbero circa 450. Questi numeri potrebbero anche salire, soprattutto se i fatti degli ultimi giorni dovessero confluire in una strategia manovrata dall’esterno per forzare un’escalation degli scontri sull’esempio di quanto accaduto in Libia e in Siria negli ultimi anni.

 

A Washington, come previsto, gli eventi in Iran sono stati subito sfruttati da Trump e dai “falchi” non solo repubblicani, già nel pieno di un’accesissima campagna contro la Repubblica Islamica. Come sempre, la pretesa del governo USA di essere al fianco di una popolazione repressa e vittima di un regime anti-democratico è però a dir poco assurda.

 

Anche tralasciando considerazioni sul sostegno americano a dittature feroci, come quella saudita, gli Stati Uniti sono responsabili di buona parte delle sofferenze degli iraniani, vittime della guerra economica condotta con il pretesto del programma nucleare di Teheran e allentata in maniera solo parziale dopo l’accordo di Vienna del 2015.

 

Per quanto riguarda inoltre la riposta alle proteste di piazza, proprio le forze di polizia americane negli ultimi anni sono state protagoniste di durissime repressioni con centinaia se non migliaia di arresti e feriti. Basti pensare, a questo proposito, alla liquidazione del movimento “Occupy Wall Street” o alle numerose rivolte urbane contro le violenze della polizia.

 

Molti commenti sui media americani in questi giorni hanno comunque rilevato come l’intervento dell’amministrazione Trump nella “crisi” iraniana possa risultare controproducente per gli interessi USA in questo paese. L’attuale presidente è infatti profondamente impopolare in Iran, vista anche la sua denuncia dell’accordo sul nucleare, e il suo appoggio alle proteste consente al governo di dipingere i dimostranti come agenti di potenze straniere ostili.

 

Rouhani e Khamenei hanno da parte loro già rilasciato dichiarazioni ufficiali per denunciare la mano occidentale nella manipolazione delle proteste, anche se almeno il presidente iraniano ha riconosciuto in parte la legittimità delle frustrazioni dovute agli stenti economici di una parte della popolazione.

 

Per lo stesso governo americano l’assist fornito al governo iraniano deve apparire poco sorprendente, tanto che l’obiettivo di coloro che dettano la politica estera USA alla Casa Bianca sembra essere più sfumato rispetto a quanto traspaia dai “tweet” di Trump. Anche a Washington il cambio di regime risulta cioè improbabile nel breve periodo, così che il tentativo di soffiare sul fuoco delle proteste in atto risponde piuttosto a una strategia volta a creare nuovamente un’atmosfera anti-iraniana a livello internazionale che giustifichi eventuali sanzioni e spinga ancora una volta il paese verso l’isolamento.

 

Questo disegno è utile agli Stati Uniti soprattutto alla luce dell’opposizione degli alleati europei alla campagna anti-iraniana promossa da Trump. Con il contributo come di consueto dei media ufficiali, dunque, non è da escludere che la Casa Bianca intenda fare pressioni sui governi europei per convincerli al disimpegno nei confronti di Teheran in seguito a quanto sta accadendo nelle città iraniane.

 

La creazione di movimenti di protesta in paesi rivali da parte degli USA è ad ogni modo una strategia consolidata quanto distruttiva e spesso espressa in maniera esplicita dai think tank filo-governativi di Washington. Ciò è ancora più evidente nel caso dell’Iran, vale a dire il maggiore ostacolo alle mire strategiche americane nella regione mediorientale, dove già nel 2009 furono fatti tentativi per trasformare in rivolta contro il regime le proteste della classe media di questo paese contro i presunti brogli nelle elezioni che assegnarono ad Ahmadinejad il suo secondo mandato alla presidenza.

 

Difficile risulta d’altra parte ignorare come le proteste in corso in Iran coincidano con una serie di sconfitte incassate in Medio Oriente dagli Stati Uniti e dai loro alleati proprio a causa delle operazioni della Repubblica Islamica. Il riferimento va in particolare al fallimento della guerra per il cambio di regime in Siria, ma anche al pantano yemenita in cui è invischiata l’Arabia Saudita e ai tentativi sempre di Riyadh per isolare il Qatar.

 

Sul fronte interno alla Repubblica Islamica, il regime rischia comunque di ritrovarsi in una situazione scomoda, vedendosi costretto a trovare un complicato equilibrio tra la necessità di contenere proteste che potrebbero degenerare in seguito all’intervento di elementi esterni e il riconoscimento di richieste popolari legittime ma difficili da soddisfare, vista la scelta della classe dirigente moderata/riformista di integrare il paese nei circuiti del capitalismo internazionale.

 

Le mire americane sull’Iran saranno infine più chiare nelle prossime settimane, quando la Casa Bianca dovrà decidere sull’eventuale reimposizione delle sanzioni sospese dall’accordo sul nucleare. L’eventuale protrarsi di scontri e proteste nel paese potrebbe infatti fornire all’amministrazione Trump il pretesto per cancellare definitivamente i modesti progressi verso una possibile distensione registrati negli ultimi due anni.

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