La pubblicazione nel fine settimana scorso di un documento, redatto dal presidente della commissione Intelligence della Camera dei Rappresentanti di Washington, ha gettato un’ombra lunghissima sulla già barcollante legittimità dell’indagine sulle presunte interferenze russe nelle elezioni americane del 2016.

 

Il “memorandum” del deputato repubblicano Devin Nunes - se il suo contenuto corrisponde effettivamente a verità - ha in sostanza rivelato come ambienti legati al Partito Democratico avessero di fatto fabbricato prove infondate contro Trump e membri dell’organizzazione dell’allora candidato alla Casa Bianca, grazie alle quali l’FBI, sotto il controllo del dipartimento di Giustizia di Obama, aveva richiesto e ottenuto un mandato per sorvegliare le comunicazioni di un ex consigliere del futuro presidente.

 

 

Vista la sensibilità del contenuto, i leader democratici al Congresso e virtualmente l’intero apparato della sicurezza nazionale USA si erano mobilitati per impedire la pubblicazione del documento. Dopo il via libera della commissione di settimana scorsa, grazie ai soli voti dei deputati repubblicani, Trump ne ha alla fine autorizzato la diffusione al pubblico, scatenando un nuovo polverone politico a Washington.

 

La reazione degli oppositori di Trump si è sviluppata principalmente in due direzioni. Da un lato, i democratici e i media ad essi allineati, a cominciare da New York Times e Washington Post, hanno cercato di minimizzare la portata del “memorandum”. Questa tattica è però contraddetta dalla disperazione con cui questi stessi ambienti avevano provato a bloccarne la pubblicazione.

 

L’altra linea d’attacco contro la Casa Bianca punta invece sulla parzialità del documento scritto da Nunes e, ancora di più, sulla necessità di evitare qualsiasi attacco nei confronti dell’FBI e dei servizi di sicurezza in genere. Il corollario di questa posizione è poi che la pubblicazione del “memorandum” e il caos che sta generando non fanno che portare acqua al mulino di Putin.

 

Il fatto che virtualmente tutti gli americani siano ora a conoscenza del documento non comporterà comunque nessuna delle conseguenze devastanti per la sicurezza del paese ipotizzate dai democratici e dall’intelligence USA. L’unica ragione che motivava questi ultimi a chiedere di mantenerne la segretezza è che il “memorandum” Nunes rivela sia la natura fraudolenta dell’indagine sul “Russiagate” sia l’utilizzo da parte dell’amministrazione Obama di mezzi illegali per sorvegliare oppositori del Partito Democratico.

 

Ciò che il “memorandum” spiega è dunque come il dipartimento di Giustizia, a pochi giorni dal voto per la Casa Bianca nel 2016, avesse sottoposto in maniera illegittima una richiesta di intercettazione al cosiddetto “FISA court”, il tribunale americano preposto appunto a valutare segretamente queste istanze, ai danni dell’ex consigliere di Trump, Carter Page, ritenuto vicino ad ambienti del governo russo.

 

Il problema consisteva nel fatto che la richiesta di sorveglianza si basava su un dossier, redatto dall’ex agente segreto britannico Christopher Steele, ritenuto quasi universalmente inattendibile e oltretutto commissionato da un’organizzazione - Fusion GPS - legata al Comitato Nazionale del Partito Democratico. Il dossier descriveva a tratti in maniera grottesca le presunte attività di Trump nel corso di un suo viaggio a Mosca che lo avevano esposto al ricatto delle autorità russe.

 

Il dipartimento di Giustizia e l’FBI non avevano fatto cenno né ai pregiudizi politici che accompagnavano la realizzazione del dossier né la dubbia affidabilità del contenuto e del suo autore, nonostante simili informazioni debbano accompagnare per legge le istanze sottoposte al tribunale sulle intercettazioni.

 

Non solo: a peggiorare la situazione c’erano anche alcune precedenti dichiarazioni di Christopher Steel, il quale aveva affermato di avere prodotto il suo dossier perché cercava “disperatamente” di impedire l’elezione di Trump. Secondo il “memorandum” Nunes, il tribunale “FISA” era rimasto poi all’oscuro del fatto che la moglie di un funzionario di spicco del dipartimento di Giustizia, l’allora vice-procuratore generale associato Bruce Ohr, era alle dipendenze di Fusion GPS, precisamente con l’incarico di scovare informazioni che potevano denigrare Donald Trump.

 

Nel fine settimana e ancora lunedì, i leader democratici al Congresso hanno insistito con la Casa Bianca e la presidenza repubblicana della commissione Intelligence della Camera affinché venga autorizzata la pubblicazione anche di una sorta di “contro-memorandum”, scritto dagli esponenti dell’opposizione. Questo documento dovrebbe spiegare come quello appena reso pubblico sia “fuorviante” e basato su informazioni di intelligence “parziali”.

 

I repubblicani avevano però già bloccato la pubblicazione di questo documento e, anche nel caso dovessero finire per accettare la richiesta dei democratici, la Casa Bianca avrebbe comunque facoltà di bloccarlo. Proprio lunedì, Trump ha attaccato pesantemente in un “tweet” l’autore del “memorandum” democratico, il deputato Adam Schiff, definito “bugiardo” e responsabile di ripetute fughe di notizie alla stampa.

 

Il nuovo aggravarsi dello scontro politico negli Stati Uniti avviene in un momento estremamente delicato, visto che nei prossimi giorni scadrà la misura temporanea di finanziamento delle attività governative, su cui i due partiti si erano accordati a fine gennaio. Il clima infuocato a causa degli ultimi sviluppi del “Russiagate” potrebbe perciò rendere più complicati i negoziati per l’approvazione del bilancio federale definitivo e portare a un nuovo “shutdown”.

 

La diffusione del “memorandum” Nunes, malgrado le implicazioni circa la legittimità delle indagini sulle presunti collusioni tra Trump e Mosca, rischia in ogni caso di incoraggiare la caccia alle streghe promossa dai democratici e dagli ambienti “liberal”.

 

La Casa Bianca potrebbe ad esempio aspettarsi un’intensificazione dei tentativi di avviare una procedura di impeachment contro il presidente, soprattutto se Trump, come ha già lasciato intendere, dovesse sfruttare il contenuto del documento appena pubblicato per fare pulizia all’interno dell’FBI e cercare di mettere fine all’indagine a suo carico.

 

A questo proposito, il numero due dei democratici al Senato, Dick Durbin, ha avvertito in un’intervista alla CNN che l’eventuale licenziamento da parte di Trump del vice ministro della Giustizia, Rod Rosenstein, o del procuratore speciale incaricato delle indagini sul “Russiagate”, Robert Mueller, “potrebbe scatenare una crisi costituzionale”.

 

La vicenda del “memorandum” Nunes conferma ancora una volta e, forse, nel modo più chiaro come il Partito Democratico americano, assieme agli organi di stampa “liberal”, sia poco più di un portavoce degli ambienti militari e dell’intelligence, impegnati a fare pressioni sulla Casa Bianca per orientare in direzione anti-russa la politica estera USA.

 

Il conflitto all’interno della classe dirigente americana è comunque tra due fazioni reazionarie, come conferma ampiamente il curriculum di Trump in questi ultimi dodici mesi, ma è innegabile che gli avversari del presidente stiano ricorrendo a metodi anti-democratici che, al di là dell’indagine in corso, contribuiscono a rafforzare l’impalcatura da stato polizia negli Stati Uniti.

 

Le rivelazioni di questi giorni sollevano anche interrogativi sulla possibilità che i metodi anti-costituzionali dell’FBI e del dipartimento di Giustizia contro l’ex consigliere di Trump, con il quale era rimasto verosimilmente in stretto contatto prima e dopo il voto, siano stati impiegati anche in altre circostanze, sempre nell’ambito delle presunte collusioni con Mosca.

 

Quali siano state le informazioni ottenute dall’intercettazione delle comunicazioni elettroniche di Carter Page o come esse siano state utilizzate e a beneficio di chi è infine un altro punto oscuro che potrebbe emergere con i prossimi sviluppi del “Russiagate”.

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