L’annuale Conferenza sulla Sicurezza, andata in scena nel fine settimana a Monaco di Baviera, ha messo in luce ancora una volta l’aggravarsi dell’instabilità internazionale e il moltiplicarsi delle situazioni di crisi che potrebbero innescare in qualsiasi momento uno o più conflitti su vasta scala.

 

L’esplosività degli scenari globali odierni era stata riconosciuta fin dall’apertura dei lavori del vertice dall’ex diplomatico tedesco che lo presiede, Wolfgang Ischinger, il quale aveva avvertito che “mai come oggi, a partire dal crollo dell’Unione Sovietica, vi è il rischio di un conflitto armato tra le maggiori potenze del pianeta”.

 

 

Ciononostante, praticamente nulla negli interventi dei leader di numerosi paesi e degli esperti della sicurezza internazionale ha lasciato intravedere una qualche volontà di superare le minacce e i conflitti in atto attraverso il dialogo e la diplomazia.

 

Al contrario, lo spettacolo di Monaco è stato quello di una classe dirigente internazionale in grado solo di assecondare le forze oggettive che spingono verso la catastrofe, facendo ipotizzare una risposta estremamente cupa all’interrogativo scelto come slogan della conferenza di quest’anno, ovvero “Verso il baratro e ritorno?”.

 

Dal segretario generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres, a quello della NATO, Jens Stoltenbgerg, sono stati in molti ad ammettere il rischio di un possibile conflitto nel prossimo futuro, anche combattuto con armi nucleari. Invariabilmente, le personalità legate ai governi e agli interessi occidentali hanno attribuito la responsabilità delle spinte destabilizzanti ai soliti colpevoli.

 

Stoltenberg ha puntato il dito contro la Russia e all’impulso di Mosca al rafforzamento del proprio programma nucleare, evidentemente dovuto a una rinnovata aggressività di questo paese sul piano internazionale. Il Consigliere per la Sicurezza Nazionale della Casa Bianca, generale H. R. McMaster, ha additato invece i regimi “canaglia” in Medio Oriente (Iran, Siria) e in Asia nord-orientale (Corea del Nord), senza tralasciare un riferimento indiretto a Russia e Cina.

 

Riferimenti alle rivalità strategiche che caratterizzano la realtà internazionale hanno impregnato anche il discorso del ministro degli Esteri tedesco, Sigmar Gabriel. Il leader socialdemocratico ha anch’egli citato Mosca e Pechino come minacce “costanti all’unità europea”, per poi rivelare gli interessi economico-commerciali dietro le posizioni di Berlino quando ha sollevato l’allarme per il progetto infrastrutturale di integrazione euro-asiatica della Cina - BRI (“Belt and Road Initiative”) – a suo dire “non basato su libertà, democrazia e diritti umani individuali”.

 

Il riferimento a questi valori, che dovrebbero essere invece a fondamento dell’azione europea, non ha avuto apparentemente alcun risvolto autoironico per l’esponente di un governo che ha imposto austerity senza fine e impoverimento di massa a buona parte del vecchio continente, per non parlare della partecipazione attiva alla distruzione di paesi come Afghanistan, Libia o Siria.

 

Ad ogni modo, la presenza a Monaco anche di svariati leader dei paesi attaccati da quelli occidentali ha evidenziato ancora di più il deterioramento del clima internazionale. Il ministro degli Esteri russo, Sergey Lavrov, ha bollato ad esempio come “chiacchiere” le notizie provenienti da Washington sull’incriminazione di 13 cittadini russi nell’ambito del Russiagate di cui aveva parlato in precedenza McMaster.

 

Il capo della diplomazia iraniana, Mohammad Javad Zarif, ha invece deriso il premier israeliano Netanyahu, protagonista di un patetico intervento durante il quale ha minacciato la Repubblica Islamica mostrando quello che avrebbe dovuto essere un pezzo del drone iraniano abbattuto recentemente sui cieli di Israele.

 

In maniera prevedibile, il teatro di Monaco è stato dunque usato dai governi occidentali e dai loro alleati per giustificare i processi di militarizzazione e i preparativi di guerra in corso, mero riflesso, a loro dire, di un quadro internazionale complicato dalle manovre di regimi intenti a minacciare la stabilità globale.

 

Che il principale fattore destabilizzante sia in realtà proprio la crisi della posizione internazionale dell’Occidente, a cominciare da quella degli Stati Uniti, e l’intensificarsi della competitività per mercati e risorse energetiche, assieme ai tentativi soprattutto di Washington di invertire le tendenze multipolari ricorrendo alla forza, è un dato incontrovertibile e ben noto in primo luogo proprio alle cancellerie e ai vertici militari occidentali.

 

Anzi, alcuni di questi fattori hanno contribuito a mettere in luce anche le crescenti spaccature transatlantiche, accelerate dall’orientamento ultra-nazionalista del presidente americano Trump. Buona parte dell’interesse dei media occidentali per la conferenza di Monaco si è concentrata così sui contrasti tra USA ed Europa attorno alla questione della difesa comune europea, lanciata ufficialmente a fine 2017 con il nome di Cooperazione Strutturata Permanente (PESCO).

 

Il numero uno della NATO e i rappresentanti del governo e del Congresso USA apparsi a Monaco hanno fatto poco o nulla per nascondere le preoccupazioni che il progetto europeo possa minare l’unità atlantica e dividere l’alleanza occidentale in un momento in cui sarebbe auspicabile unificare l’impegno contro la presunta minaccia russa e cinese.

 

Stoltenberg ha definito “positiva” l’intenzione di “rafforzare le capacità difensive dell’Europa” e di “suddividere più equamente gli oneri” che ne derivano. Allo stesso tempo, il residuo ottimismo relativo alla nascita della PESCO è svanito quando l’ex premier norvegese ha messo in guardia dal “rischio di indebolire il vincolo transatlantico, di duplicare ciò di cui già si occupa la NATO e di discriminare i membri dell’Alleanza non appartenenti all’UE”. Per Stoltenberg, soprattutto, “l’Europa non è in grado di proteggersi da sola” e l’ombrello della protezione NATO rimane imprescindibile.

 

Le parole pronunciate da Stoltenberg a Monaco hanno espresso le ansie sul piano strategico di paesi come Stati Uniti e Gran Bretagna per le divisioni transatlantiche alimentate dal divergere degli interessi tra gli alleati sulle due sponde dell’Atlantico.

 

A motivare le inquietudini di Washington c’è però anche il rischio che lo stimolo alla militarizzazione in Europa finisca per comprimere i profitti delle compagnie americane produttrici di armamenti. Su questo aspetto aveva portato l’attenzione settimana scorsa l’inviata americana presso la NATO, Kay Bailey Hutchinson, la quale senza troppi giri di parole aveva spiegato che il suo governo “non desidera che la PESCO diventi un strumento del protezionismo europeo”, così che le capacità militari dell’Unione non devono essere rafforzate “a discapito dei prodotti americani”.

 

I leader europei, da parte loro, non hanno evidenziato particolari sforzi nel rassicurare gli Stati Uniti sui possibili percorsi opposti delle rispettive politiche di “difesa”. Il ministro della Difesa tedesco, Ursula von der Leyen, nel sollevare la questione ha utilizzato ad esempio la definizione, fino a poco tempo fa controversa, di “esercito europeo” per descrivere la PESCO, mentre la sua omologa francese, Florence Parly, ha fatto un aperto riferimento alla necessità dell’Unione di promuovere i propri interessi, evidentemente con la forza, anche senza la collaborazione degli Stati Uniti.

 

L’immagine più efficace delle laceranti divisioni e della feroce competitività internazionale che sta approfondendo il solco transatlantico è stata proposta dal ministro degli Esteri tedesco. Gabriel ha parlato dell’imperativo dell’Europa, ovvero di Berlino, tutt’al più in collaborazione con Parigi, di evitare di restare “vegetariana in un mondo di carnivori”.

 

Molti commentatori e politici americani vicini al Partito Democratico hanno condannato le critiche rivolte alla PESCO dai membri dell’amministrazione Trump e dai vertici NATO a Monaco. Infatti, soffiare sul fuoco delle divisioni, dal loro punto di vista, non fa che aggravare le tensioni, andando a complicare ulteriormente uno scenario sul quale potrebbero produrre effetti negativi anche le conseguenze della Brexit e i malumori nei confronti di Bruxelles dei paesi dell’Europa orientale.

 

Svariate analisi del summit di Monaco hanno ricordato infine come l’impegno alla difesa comune europea resti per il momento relativamente modesto e comunque tale da rendere impossibile lo svincolo dell’Unione dalla NATO o dagli USA in termini di sicurezza.

 

Il lancio della PESCO e le prese di posizione dei leader europei, soprattutto tedeschi e francesi, sull’onda delle nuove dinamiche internazionali, indicano tuttavia un’intenzione sempre più chiara da parte della classe dirigente del vecchio continente, quella cioè di perseguire i propri interessi economici e strategici in maniera indipendente e per mezzo di una macchina da guerra adeguata agli scenari prodotti dalla crisi crescente del capitalismo globale.

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