Di prove concrete dell’esistenza e dell’impiego di armi chimiche da parte di Assad in Siria non vi è tuttora traccia, ma il governo di Damasco e, in seconda battuta, quello di Mosca sono comunque responsabili di attacchi presumibilmente condotti con sostanze proibite contro i civili nel paese mediorientale in guerra.

 

Questa è in sostanza la posizione dell’Occidente in un frangente forse cruciale del conflitto, sempre più simile alle fasi che precedettero l’invasione dell’Iraq nel 2003 sulla base di accuse fabbricate dell’esistenza in questo paese di “armi di distruzioni di massa”.

 

 

L’offensiva del regime di Assad contro l’enclave di Ghouta orientale, controllata dai jihadisti, è stata l’occasione per il riaccendersi della macchina della propaganda occidentale. Come aveva avvertito il governo russo, l’escalation di minacce provenienti da Washington, Londra e Parigi, disperati nel constatare la possibile sconfitta dei propri “asset” strategici a Ghouta, ha finito inevitabilmente per includere le solite accuse a Damasco di avere fatto ricorso ad armi chimiche.

 

La campagna di propaganda è come sempre attentamente coordinata e mescola condanne e avvertimenti di esponenti dei vari governi occidentali a presunte rivelazioni giornalistiche e rapporti realizzati da organi autorevoli e apparentemente imparziali.

 

In questo contesto va inquadrata l’esclusiva a cui ha dato ampio spazio questa settimana il New York Times sulla scoperta, da parte di una commissione “indipendente” delle Nazioni Unite, di una rotta tra la Corea del Nord e la Siria lungo la quale viaggiano o viaggiavano forniture di materiale e componenti tecnici teoricamente utilizzabili per la realizzazione di armi chimiche.

 

Malgrado il rilievo dato alla notizia e alla descrizione dei rifornimenti provenienti da Pyongyang e alla possibile presenza di tecnici nordcoreani in Siria, nonché ai legami tradizionalmente amichevoli tra i due paesi, i passaggi realmente rivelatori  sono due brevi paragrafi sepolti all’interno dell’articolo.

 

Il primo conferma come i componenti che sarebbero giunti a Damasco dalla Corea del Nord, descritti in maniera generica e superficiale dal Times, “possono essere utilizzati a fini sia civili che militari”, essendo perciò con ogni probabilità acquistati e venduti da moltissimi altri paesi.

 

La seconda affermazione è ancora più significativa e spiega come il rapporto ONU avverta che “le prove presentate non dimostrano in maniera incontrovertibile l’esistenza di una collaborazione continuata tra la Corea del Nord e la Siria in materia di armi chimiche”.

 

In altre parole, l’esclusiva del New York Times, che ricorda in modo inquietante la serie di articoli che condussero all’aggressione dell’Iraq nel 2003, si basa su dubbie supposizioni di un documento che non può che essere di natura politica.

 

A ben vedere, il giornale americano potrebbe avere forzato la mano alla stessa commissione ONU, quasi certamente con la collaborazione di uno o più membri al suo interno. Infatti, il rapporto su questa sorta di riedizione dell’asse del male non è stato ancora reso pubblico né è chiaro, ammette il giornale americano, se mai verrà pubblicato.

 

Un portavoce delle Nazioni Unite, in risposta a una richiesta di commento di un reporter del Times, si è limitato a collegare il rapporto alla necessità di ogni paese di rispettare le sanzioni in vigore adottate dal Consiglio di Sicurezza. Se mai, dunque, il rapporto ONU in questione può essere tutt’al più una dimostrazione del tentativo siriano e nordcoreano di aggirare sanzioni commerciali che gravano su entrambi i paesi.

 

Visti gli obiettivi del New York Times e dell’apparato dello stato americano a cui il giornale fa riferimento, la notizia è invece usata di fatto per confermare il persistere di attività proibite nell’ambito di armamenti chimici da parte del regime di Damasco. Per dimostrare questo punto, l’articolo cita svariati esperti e analisti che concordano nel sostenere come la Siria non abbia abbandonato le proprie attività proibite nemmeno dopo l’accordo internazionale del 2013, quando Assad firmò la Convenzione sulle Armi Chimiche.

 

In quell’occasione, mediando un accordo con Washington, la Russia aveva evitato un attacco militare americano, minacciato da Obama dopo un altro episodio controverso. Un attacco con armi chimiche nella stessa enclave di Ghouta era stato cioè attribuito ad Assad, anche se in seguito varie fonti, realmente autorevoli e indipendenti, avevano dimostrato che la responsabilità era da attribuire ai gruppi armati dell’opposizione, intenzionati a far ricadere la colpa sul regime e provocare un intervento militare dell’Occidente.

 

Negli anni successivi si sono ripetute a intermittenza accuse simili contro Damasco, quasi sempre in concomitanza con eventi diplomatici per la negoziazione di una soluzione pacifica al conflitto o, come nel caso di questi giorni, nel pieno di iniziative militari delle forze governative che minacciano pesanti sconfitte per i “ribelli”.

 

L’episodio forse più significativo fu quello dell’aprile del 2017, quando le forze di Assad vennero accusate di avere messo in atto un’offensiva con gas sarin nella località di Khan Sheikhoun, nella provincia di Idlib, provocando 80 morti e centinaia di feriti. In assenza di prove o anche solo di un’indagine indipendente sul campo, dopo pochi giorni l’amministrazione Trump decise di agire con il lancio di 59 missili Tomahawk diretti contro una base aerea siriana.

 

Sempre a Ghouta, così, nei giorni scorsi sarebbe andato in scena un nuovo attacco del regime con gas cloro. L’assurdità dell’accusa rivolta contro Assad necessita evidentemente di una massiccia campagna mediatica, di cui l’articolo del New York Times fa appunto parte. Da un punto di vista strategico e non solo, infatti, il ricorso ad armi chimiche in un’operazione come quella in corso a Ghouta non ha alcun senso.

 

L’attacco appare innanzitutto troppo limitato per avere qualche conseguenza sugli equilibri militari. Soprattutto, poi, come nei precedenti episodi non è chiaro come il regime continui a manifestare tendenze suicide con azioni che prevedibilmente lo espongono a critiche durissime se non a possibili ritorsioni dell’Occidente.

 

L’analisi dei fatti e delle motivazioni che stanno dietro a determinati eventi, così come il semplice uso della logica, non sembrano però fare parte né del giornalismo ufficiale né delle azioni dei governi occidentali. Il dibattito internazionale e l’approccio a crisi come quella siriana, peraltro creata e aggravata dagli Stati Uniti e dai loro alleati, vengono ridotti a pura propaganda e alla promozione, spesso in maniera feroce e violenta, dei propri interessi strategici.

 

A conferma del coordinamento della nuova campagna anti-Assad, che fa intravedere un’intensificazione dell’impegno militare occidentale in Siria, due alleati fondamentali degli Stati Uniti sono intervenuti nei giorni scorsi per minacciare azioni concrete contro il regime proprio con il pretesto delle armi chimiche.

 

Martedì, il ministro degli Esteri britannico, Boris Johnson, parlando alla Camera dei Comuni ha assicurato che Londra valuterà l’ipotesi di bombardamenti contro il regime siriano se dovessero emergere “prove incontrovertibili” della responsabilità di Assad di attacchi con sostanze proibite. Le “prove incontrovertibili” richieste dal leader conservatore è probabile debbano arrivare da Washington o da organizzazioni il cui grado di imparzialità è ben noto, come i cosiddetti “Caschi Bianchi”.

 

In previsione forse dell’imminente nuova campagna propagandistica contro Damasco, infine, il presidente francese, Emmanuel Macron, già a metà febbraio aveva anch’egli minacciato di far piovere bombe sul regime in caso di notizie di attacchi contro civili condotti con armi chimiche proibite.

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