Un paio di recenti dichiarazioni a sorpresa del presidente americano Trump hanno riacceso il dibattito sulla Siria e un conflitto che, sempre negli ultimi giorni, ha visto complicarsi ulteriormente gli scenari sul campo, con il rischio concreto di uno scontro diretto tra le forze armate di alleati NATO schierati su posizioni opposte.

 

In un evento pubblico di settimana scorsa in Ohio, Trump aveva sostenuto che il contingente USA dispiegato (illegalmente) nel nord della Siria, e stimato in oltre duemila uomini, avrebbe lasciato il paese mediorientale “molto presto”. Altri governi e altre forze avrebbero perciò dovuto “occuparsi” della guerra in corso dal 2011.

 

A far pensare molti al carattere forse non del tutto estemporaneo della dichiarazione è stata la sostanziale conferma delle intenzioni del presidente nella giornata di martedì. Dalla Casa Bianca, Trump ha di nuovo prospettato l’ipotesi del ritiro dei soldati americani dalla Siria, anche se in toni meno perentori. In primo luogo, ha definito l’eventuale scelta in questo senso come un suo desiderio, per poi precisare che la decisione sarà comunque presa “in accordo con altri” soggetti, ovvero i vertici militari e l’apparato dell’intelligence.

 

Trump si è riunito con i suoi consiglieri poche ore più tardi a Washington e alla fine sarebbe stato convinto a fare almeno una parziale marcia indietro. Mercoledì la Casa Bianca ha confermato che la missione in Siria si sta avviando verso l’epilogo, ma il presidente non fisserà alcuna scadenza per il ritiro dei soldati. Il Washington Post ha però rivelato che Trump avrebbe dato ordine ai comandanti militari di tenersi pronti per un possibile disimpegno dal paese mediorientale, poiché la missione USA non dovrà andare oltre il momento in cui lo Stato Islamico (ISIS) sarà sconfitto.

 

Le parole di Trump hanno comunque mandato in confusione analisti e commentatori, ma anche probabilmente molti esponenti della sua amministrazione. L’eventualità di un disimpegno USA dalla Siria va infatti in direzione opposta agli sviluppi degli ultimi mesi. A dare teoricamente una qualche attendibilità alla tesi del ritiro delle truppe, oltre alle affermazioni del presidente, è per ora soltanto il congelamento da parte della Casa Bianca di una somma pari a 200 milioni di dollari che il dipartimento di Stato ha già stanziato per “progetti di stabilizzazione in Siria”.

 

Le dichiarazioni di Trump sono state oltretutto accompagnate dalle rassicurazioni di militari e diplomatici, descritti dalla CNN come “perplessi” di fronte alla presa di posizione del presidente, che hanno spiegato come l’impegno militare USA in Siria proseguirà ancora a lungo, nonostante la persistente assenza di qualsiasi giustificazione legale.

 

Ampio spazio dai media americani è stato dato a quanto affermato nel corso di un evento organizzato da un “think tank” di Washington dal numero uno del Comando Centrale, generale Joseph Votel. Il responsabile delle operazioni militari americane in Medio Oriente ha messo in guardia dal fatto che l’ISIS, ragione ufficiale della presenza americana in Siria, mantenga ancora una piccola presenza sul territorio di questo paese. Per questa ragione e per la “stabilizzazione” della Siria i militari americani dovranno restare ancora a lungo.

 

L’inviato speciale americano presso la “coalizione” internazionale anti-ISIS, Brett McGurk, alla stessa conferenza di Washington ha garantito che la missione USA in Siria proseguirà fino al suo completamento, presumibilmente con la sconfitta definitiva dello Stato Islamico. In merito ai 200 milioni di dollari in aiuti alla Siria bloccati dalla Casa Bianca, McGurk ha ammesso che è in corso un riesame dello stanziamento, ma il dipartimento di Stato ha comunque a disposizione somme sufficienti per proseguire nelle operazioni previste.

 

Come spesso accade nel caso di Trump, risulta difficile comprendere se determinate dichiarazioni siano improvvisate oppure frutto di una valutazione politica razionale condotta dal suo staff. La promessa del ritiro dei soldati USA dalla Siria ricorda quelle fatte in campagna elettorale nel 2016 e intende probabilmente rispondere sia alle frustrazioni diffuse tra gli americani per le continue guerre sia alle richieste della fazione ultra-nazionalista e isolazionista dei sostenitori del presidente nell’orbita del Partito Repubblicano.

 

Le dichiarazioni di Trump, secondo alcuni, potrebbero essere anche un modo per fare pressioni sugli alleati arabi ad aumentare il loro impegno in Siria. Il presidente americano ha infatti affermato martedì che i soldati USA potrebbero rimanere in Siria se fosse l’Arabia Saudita a sostenerne il peso economico. La proposta di Trump è arrivata mentre l’erede al trono saudita, Mohammed bin Salman, si trova negli Stati Uniti per una lunga visita ufficiale.

 

Ci sono d’altra parte pochi dubbi sul fatto che negli ambienti di potere americani vi siano forze che vedono come uno spreco di risorse e un rischio eccessivo l’escalation militare in Siria, potenzialmente in grado di provocare una guerra con Iran o Russia. Tuttavia, almeno per il momento, le parole di Trump si scontrano con le operazioni in atto per intensificare l’impegno militare degli Stati Uniti in Medio Oriente.

 

Prima di essere licenziato, il segretario di Stato uscente Tillerson nel mese di febbraio aveva delineato gli obiettivi di Washington in Siria ed essi andavano ben al di là della guerra all’ISIS. In cima all’agenda della Casa Bianca vi era e, vista la predisposizione del prossimo segretario di Stato, Mike Pompeo, vi è ancora l’occupazione indefinita di una porzione del territorio siriano, il rovesciamento del regime di Assad e il contenimento dell’influenza russa e iraniana in questo paese.

 

Alcune notizie provenienti dal nord della Siria confermano questa tendenza. L’agenzia di stampa turca Anadolu, ad esempio, ha scritto nei giorni scorsi che il Pentagono starebbe creando almeno due nuove postazioni nella regione di Manbij, dove sono già arrivati circa 300 soldati che dovrebbero affiancare le milizie curde oggetto dell’offensiva turca inaugurata lo scorso mese di gennaio.

 

Secondo la CNN, i vertici militari americani stanno inoltre predisponendo nuovi piani per l’invio di decine di altri uomini in Siria. Questi e altri sviluppi sembrano dunque confermare il quadro disegnato dal ministro degli Esteri russo, Sergey Lavrov, il quale ha spiegato che gli Stati Uniti puntano alla “disintegrazione dello stato siriano” con la scusa di combattere il terrorismo, creando nell’immediato un’area autonoma curda nel nord del paese mediorientale da usare come base per la promozione dei propri interessi strategici.

 

Un disimpegno americano dalla Siria in questo momento si scontrerebbe poi con l’intensificazione della retorica anti-iraniana a Washington, dal momento che la Repubblica Islamica sarebbe il principale beneficiario, assieme alla Russia, dell’uscita di scena degli Stati Uniti.

 

Gli altri sviluppi della situazione in Siria rendono ancora più improbabile l’ipotesi del ritiro delle truppe USA suggerita da Trump. Uno di questi è proprio l’avanzata dell’esercito turco nelle aree controllate dai curdi. Le manovre di Ankara rappresentano una sfida complessa per l’amministrazione repubblicana. Esse non solo minacciano di spazzare via le forze su cui Washington ha puntato per conservare una qualche influenza in Siria, ma l’aumentare delle frizioni tra i due alleati NATO spinge inevitabilmente la Turchia verso la Russia e l’Iran.

 

Questa dinamica è evidente da tempo ed è stata confermata dal vertice di mercoledì ad Ankara tra Erdogan, Putin e Rouhani per discutere della guerra in Siria nel quadro dei negoziati di Astana, da cui gli USA sono esclusi. In un incontro a margine di questo evento, inoltre, Putin ed Erdogan hanno fatto un altro annuncio non esattamente gradito agli Stati Uniti, cioè l’accelerazione della fornitura alla Turchia del sistema di difesa anti-aereo russo S-400.

 

In questo scenario già complicato si inserisce infine il fattore francese, emerso proprio negli ultimi giorni. La settimana scorsa, il presidente Macron aveva rilanciato le ambizioni francesi da grande potenza, con ogni probabilità scommettendo anche sulle contraddizioni della politica estera americana, annunciando l’invio di propri soldati nel nord della Siria, ufficialmente a sostegno delle milizie curde.

 

La dichiarazione di Macron era seguita a un incontro a Parigi con rappresentanti delle Forze Democratiche Siriane (SDF), di cui le Unità di Protezione Popolare curde (YPG) sono la componente più importante. L’iniziativa aveva suscitato la dura condanna del governo di Ankara, che considera questa organizzazione come terroristica, tanto più che Macron si era anche offerto di agire da mediatore tra le due parti in guerra sul territorio siriano.

 

Questa settimana è poi apparso chiaro che l’annuncio di Macron si riferiva in realtà a una situazione già esistente sul campo e potenzialmente conflittuale non solo con la Turchia ma anche con gli Stati Uniti, malgrado l’apparente convergenza di interessi tra Washington e Parigi. Fonti curde siriane hanno infatti rivelato come la Francia disponga già di un certo numero di propri militari nella Siria settentrionale – a Raqqa, a Manbij e altrove – quasi sempre impegnati a fianco di quelli americani e, come questi ultimi, in violazione di qualsiasi norma del diritto internazionale.

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