La crisi politica del Partito Repubblicano negli Stati Uniti si è acuita questa settimana con l’annuncio relativamente a sorpresa dell’intenzione di non ricandidarsi alle prossime elezioni di metà termine dello “speaker” della Camera dei Rappresentanti di Washington, Paul Ryan.

 

Il 48enne deputato del Wisconsin ricopre la terza carica istituzionale più prestigiosa negli USA e, presiedendo un’assemblea dove il suo partito detiene una netta maggioranza, dispone di ampi poteri sia in termini legislativi sia per quanto riguarda gli equilibri nelle file dei repubblicani.

 

 

L’abbandono di qui a pochi mesi dell’incarico che ricopre da due anni e mezzo è considerato come un segnale della sempre più probabile sconfitta del Partito Repubblicano nel voto di novembre e della conseguente perdita della maggioranza alla Camera a favore dei democratici. Per i giornali americani, questi possibili scenari potrebbero convincere il partito a concentrare i propri sforzi per conservare almeno la risicata maggioranza al Senato, dove a novembre sarà in palio solo un terzo dei seggi.

 

Oltre a Ryan, più di quaranta deputati repubblicani hanno già rinunciato a correre per la rielezione alla Camera, lasciando il loro partito a competere in decine di distretti con candidati spesso poco conosciuti e senza il vantaggio finanziario e di immagine che comporta avere trascorso almeno un mandato al Congresso di Washington. La mancata candidatura di Ryan, visti i suoi legami con i grandi interessi economici americani, provocherà quasi certamente anche una diminuzione del flusso di denaro nelle casse repubblicane per il finanziamento della prossima campagna elettorale.

 

Al di là delle motivazioni ufficiali, spiegate in un discorso pubblico tenuto nella giornata di mercoledì e legate in parte al bisogno di trascorrere più tempo con la famiglia, molti commentatori hanno intravisto un chiaro calcolo politico nell’addio di Ryan. Il presidente della Camera, in sostanza, non intende essere coinvolto nel possibile tracollo repubblicano di novembre, così da preservarsi per un possibile futuro rilancio, magari proprio in previsione di una candidatura alla Casa Bianca.

 

Paul Ryan è accostato alla corrente conservatrice meno estrema del Partito Repubblicano, sempre più in minoranza con l’avvento del populismo ultra-nazionalista di Trump. Come ha spiegato un’analisi del Washington Post, “al contrario di un presidente votato al caos, Ryan è una figura rassicurante per la comunità degli affari e una fonte di stabilità”.

 

Sulle macerie di un Partito Repubblicano lacerato dalla presidenza Trump, dunque, Ryan potrebbe ricostruire in futuro le sue fortune politiche proponendosi alla sezione della classe dirigente che a esso fa capo come punto di riferimento non compromesso né con l’attuale presidente né con la possibile batosta elettorale del prossimo novembre.

 

Ryan, in ogni caso, viene oggi considerato come un membro “moderato” della leadership repubblicana soltanto perché questo partito e l’intero quadro politico americano hanno operato un drammatico spostamento a destra negli ultimi anni. Solo nel 2012, quando corse per la vice-presidenza, la scelta di Paul Ryan da parte dell’allora candidato alla Casa Bianca, Mitt Romney, fu vista come un gesto di favore alla destra repubblicana. Tre anni più tardi, inoltre, le dimissioni da presidente della Camera del predecessore di Ryan, John Boehner, erano state lette come il sintomo dell’avanzata della destra nel Partito Repubblicano.

 

Ryan è attestato d’altra parte su posizioni ultra-liberiste in ambito economico, essendo da sempre un convinto fautore dei tagli alle tasse per imprese e redditi più elevati, mentre si batte strenuamente per lo smantellamento dei programmi di welfare pubblici negli Stati Uniti. Il costante declino della sua popolarità, dopo essere stato a lungo uno degli altri nascenti del Partito Repubblicano, è legata in parte proprio alle politiche economiche promosse durante la sua carriera politica. Sul ridimensionamento della spesa sociale americana, poi, Ryan si è talvolta scontrato con lo stesso Trump, soprattutto durante la campagna elettorale del 2016, quando il futuro presidente necessitava di un messaggio populista da offrire alla “working-class” allontanatasi dal Partito Democratico.

 

Il ritiro di Ryan è visto dunque come una sorta di resa da parte dell’establishment tradizionale repubblicano all’ondata populista guidata da Trump. Senza entrare nel merito degli equilibri interni al partito, quel che appare significativo e tutt’altro che casuale è però che l’annuncio dello “speaker” della Camera è arrivato nel pieno dell’escalation dell’attacco alla Casa Bianca per mezzo dell’indagine sul cosiddetto “Russiagate”.

 

Proprio lunedì, l’FBI aveva condotto una serie di perquisizioni negli uffici dell’avvocato personale di Trump, Michael Cohen, per confiscare documenti riconducibili ai vari filoni di indagine che portano al presidente. L’evento, virtualmente senza precedenti negli Stati Uniti, ha segnato un aggravarsi della posizione dell’inquilino della Casa Bianca, messo all’angolo dai suoi oppositori nell’apparato di potere americano che spingono per una politica estera più aggressiva nei confronti di Mosca.

Svariati repubblicani al Congresso hanno poi accettato di discutere con i democratici una proposta di legge per impedire al presidente di licenziare il procuratore speciale Robert Mueller che sta indagando sul “Russiagate”.

 

Nei giorni scorsi, il New York Times aveva rivelato come Trump nel mese di dicembre fosse stato sul punto di liquidare l’ex direttore dell’FBI e chiudere l’indagine ai suoi danni. I democratici e molti anche tra i repubblicani hanno da tempo avvertito la Casa Bianca che il licenziamento di Mueller, così come del suo diretto superiore, il vice-ministro della Giustizia Rod Rosenstein, significherebbe il superamento di una “linea rossa” con conseguenze gravi per il presidente.

 

Parallelamente, infine, proprio il ritiro di Ryan lascia intravedere un futuro poco roseo per Trump, poiché dovrebbe rendere in teoria più agevole il successo dei democratici nelle elezioni di novembre, aprendo la strada, con l’inizio della prossima legislatura, a un possibile procedimento di impeachment ai danni di un presidente visto sempre più come una minaccia agli interessi strategici degli Stati Uniti.

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