La visita di due giorni del primo ministro giapponese, Shinzo Abe, nella residenza in Florida del presidente americano Trump ha avuto al centro delle discussioni alcune questioni che negli ultimi mesi hanno agitato i rapporti tra i due alleati. Le misure protezionistiche decise a Washington e la decisione della Casa Bianca di accettare l’invito alla distensione del regime nordcoreano minacciano infatti di scardinare i piani del governo di Tokyo sia sul fronte economico sia su quello della “sicurezza nazionale”.

 

 

Agli occhi di Abe, l’agenda ultra-nazionalista di Trump era apparsa probabilmente subito pericolosa per gli interessi del Giappone, come aveva dimostrato l’impazienza dello stesso premier di incontrare il neo-eletto presidente dopo il voto del novembre 2016. La prospettata involuzione delle politiche commerciali americane ancora prima dell’insediamento di Trump alla Casa Bianca è stata poi effettivamente implementata e il Giappone è stato finora tra i paesi più penalizzati, quanto meno tra quelli alleati di Washington.

 

Nella residenza di Mar-a-Lago, il capo del governo di Tokyo ha così quasi sicuramente chiesto a Trump di estendere anche al suo paese l’esenzione dalle tariffe doganali da poco imposte sulle importazioni in America di acciaio e alluminio. Provvedimenti di dispensa dai dazi sono già stati adottati dalla Casa Bianca a favore di alcuni alleati, ma non per il Giappone. Ciò ha colpito profondamente i leader di questo paese, vista la solida alleanza che lo lega agli Stati Uniti. Tanto più per il fatto che la decisione che ha inaugurato l’accelerazione protezionistica dell’amministrazione repubblicana è stata presa ufficialmente per ragioni di “sicurezza nazionale”.

 

Già nelle prime ore dall’inizio del suo mandato alla guida degli USA, Trump aveva anche respinto un importante progetto comune tra i due paesi e sul quale Abe si era esposto non poco politicamente, ovvero il trattato di libero scambio TPP (“Partnership Trans-Pacifica”). Il primo ministro giapponese contava su questo strumento per dare un impulso ai piani di liberalizzazione economica del suo governo.

 

La probabile intenzione di Trump di far fallire interamente l’accordo tra dodici paesi asiatici e del continente americano era stata così un ulteriore motivo di irritazione per Tokyo. Infine, la riesumazione in forma parzialmente modificata del TPP e la ratifica del trattato tra i rimanenti 11 paesi firmatari ha aggiunto un nuovo elemento di disturbo nei rapporti USA-Giappone.

 

Il possibile rientro degli USA nel TPP, come ha lasciato intendere e poi smentito Trump nei giorni scorsi, assieme a una tardiva esenzione anche per il Giappone dal pagamento dei dazi su acciaio e alluminio, sono legati secondo alcuni osservatori alla disponibilità di Tokyo di avviare negoziati con Washington su un trattato bilaterale di libero scambio.

 

Il mercato interno giapponese altamente protetto rende però molto scettico il governo Abe su questa eventualità e le presunte resistenze ostentate con l’amministrazione Trump sarebbero uno dei motivi dell’accanimento del presidente americano sull’alleato asiatico in ambito commerciale. L’obiettivo di Washington anche nei confronti del Giappone è d’altra parte quello di ridurre il sensibile passivo della bilancia commerciale con Tokyo.

 

Anche per quanto riguarda la crisi nella penisola di Corea il governo giapponese si è ritrovato destabilizzato dall’atteggiamento americano. La notizia, diffusa martedì da New York Times e Associated Press, della visita segreta a Pyongyang nel fine settimana di Pasqua del direttore uscente della CIA e prossimo segretario di Stato, Mike Pompeo, ha con ogni probabilità fatto aumentare i malumori tra la delegazione giapponese in visita negli Stati Uniti.

 

Il tempismo di questa notizia, così come la conferma da parte di Trump della disponibilità a incontrare Kim Jong-un e della “benedizione” ai colloqui di pace tra le due Coree, non deve essere sfuggito ad Abe, il quale vede in una relativamente improvvisa distensione in Asia nord-orientale, dalla quale Tokyo rischia di giocare un ruolo marginale, un impedimento ai piani di militarizzazione del proprio paese.

 

Il governo giapponese del Partito Liberal Democratico sta cercando da tempo di cancellare le restrizioni costituzionali alla creazione di un esercito con compiti non solo difensivi e che sia utile al perseguimento degli interessi economico-strategici della classe dirigente nipponica. Il progetto è visto con sospetto se non aperta avversione dalla maggioranza della popolazione giapponese e, per superare le resistenze interne, Abe ha tra l’altro ingigantito la minaccia che rappresenterebbero per il suo paese sia la Cina sia la Corea del Nord.

 

Per questa ragione, Abe aveva nei mesi scorsi assecondato i toni minacciosi di Trump nei confronti del regime di Kim. La svolta americana dall’inizio dell’anno e la prospettiva di una clamorosa distensione tra Washington e Pyongyang priverebbero perciò Tokyo di un’arma di propaganda utile al processo di militarizzazione in atto.

 

Su un piano generale, i motivi di attrito tra Stati Uniti e Giappone emersi in questi mesi sono da ricondurre al progressivo deterioramento del peso di entrambi i paesi sul piano internazionale e alla crescente competitività a livello globale. Il declino dell’economia giapponese ha aperto una serie di dilemmi tra la classe dirigente di questo paese, il primo dei quali ha a che fare appunto con l’opportunità di allineare in maniera ancora più stretta i propri interessi strategici a quelli degli Stati Uniti, nonostante, ad esempio, il richiamo cinese in termini di opportunità economiche e commerciali.

 

La scelta di Abe e degli ambienti di estrema destra delle élite giapponesi è stata da subito quella di puntare a un rafforzamento della già più che consolidata partnership con Washington, ma una serie di fattori oggettivi, a cominciare dalle dinamiche del capitalismo internazionale in grave crisi, spingono i due alleati sempre più verso percorsi divergenti, come conferma la vicenda delle tariffe doganali.

 

Tutti questi fattori rischiano poi di essere accentuati dagli affanni interni che Trump e Abe stanno affrontando, per superare i quali entrambi i governi stanno alimentando i sentimenti nazionalistici domestici. Se la Casa Bianca è invischiata nelle trame ben note del “Russiagate”, il premier giapponese sta assistendo al crollo drammatico della propria popolarità, principalmente a causa di uno scandalo relativo a favori che Abe avrebbe fatto a due imprenditori amici per aprire istituti scolastici su terreni pubblici ceduti a prezzi di favore.

 

Il rapido complicarsi della posizione politica di Abe appare clamoroso se si pensa alla facile vittoria elettorale dello scorso anno, favorita peraltro dal vuoto tra l’opposizione giapponese. Se la sua leadership nel partito e la posizione di capo del governo apparivano solide fino a pochi mesi fa, oggi la realtà appare diversa, tanto che in una recente intervista l’influente ex premier Junichiro Koizumi ha addirittura ipotizzato possibili dimissioni da parte di Abe già entro l’estate.

 

Anche per invertire il declino sul fronte interno, Abe ha provato a rilanciare la scommessa di cementare il rapporto con il presidente americano, evidenziando i possibili effetti benefici per il Giappone. In quest’ottica va vista ad esempio la richiesta, accettata da Trump, di sollevare durante il prossimo incontro con Kim Jong-un la questione dei cittadini giapponesi presumibilmente rapiti da agenti nordcoreani negli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso.

 

L’imprevedibilità dell’inquilino della Casa Bianca e il coagularsi di forze centrifughe che agiscono sulla politica estera di Washington rischiano però di trasformarsi in un boomerang per Tokyo, con effetti destabilizzanti sui rapporti tra i due alleati, nonché potenzialmente letali sul futuro politico del primo ministro giapponese.

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