La notizia della visita segreta in Corea del Nord del segretario di Stato americano in pectore, Mike Pompeo, ha alimentato in tutto il mondo le speranze per il raggiungimento di una pace duratura in Asia nord-orientale a distanza di oltre sei decenni dalla fine della guerra.

 

La natura dell’amministrazione Trump e la crisi interna che sta attraversando rendono però ancora molto incerto il possibile processo di distensione. Anzi, la stessa accettazione della proposta di dialogo fatta da Kim Jong-un e il prossimo faccia a faccia tra quest’ultimo e il presidente Trump potrebbero facilmente preludere a un’intensificazione delle pressioni su Pyongyang e il repentino ritorno del rischio concreto di un conflitto rovinoso.

 

 

La precarietà delle fondamenta su cui poggia l’opzione diplomatica è stata ricordata dallo stesso Trump questa settimana durante un incontro in Florida con il primo ministro giapponese, Shinzo Abe. Il presidente americano ha confermato come sia in fase di organizzazione lo storico vertice con il leader nordcoreano, per poi aggiungere subito dopo che il summit potrebbe anche non produrre alcun risultato positivo o, addirittura, non avvenire del tutto.

 

Trump ha anche sostenuto che Pompeo e Kim si sono trovati a proprio agio durante il loro incontro a Pyongyang nel fine settimana di Pasqua, mentre ha riconosciuto che i due paesi nemici “non sono mai stati in una posizione migliore di questa” per provare a risolvere la crisi nella penisola di Corea. Allo stesso tempo, l’inquilino della Casa Bianca ha insistito su un punto poco gradito al regime di Kim, cioè che gli USA manterranno la “massima pressione” sulla Corea del Nord, così che le sanzioni punitive in vigore rimarranno fino alla “denuclearizzazione” del paese.

 

La visita dell’ex capo della CIA a Pyongyang è effettivamente un evento significativo, essendo Pompeo l’esponente del governo americano più autorevole a incontrare un leader nordcoreano dal 2000, quando l’allora segretario di Stato, Madeleine Albright, fu accolta da Kim Jong-il. Evidentemente storico sarebbe anche il vertice tra il figlio di quest’ultimo e il presidente Trump, teoricamente in programma per i primi di giugno.

 

Un senso di estrema diffidenza pervade tuttavia l’intero processo in corso e non solo per la concomitanza del recente attacco illegale sulla Siria, ordinato meno di una settimana fa da Trump dopo che egli stesso aveva annunciato almeno in due occasioni l’intenzione di ritirare il contingente militare americano stanziato nel paese mediorientale.

 

Dietro alle manovre americane in Corea non ci sono infatti scrupoli relativi all’arsenale nucleare di un regime isolato e impoverito, né tantomeno la situazione dei diritti umani in questo paese. L’obiettivo di Washington è piuttosto quello di riaffermare gli interessi strategici degli Stati Uniti in Estremo Oriente, allargando la propria influenza a discapito di quella cinese. In questo calcolo, la Corea del Nord rappresenta una pedina di importanza fondamentale.

 

A qualche commentatore, la visita di Pompeo a Pyongyang ha ricordato il viaggio segreto di Kissinger in Cina nel 1971 che anticipò l’incontro tra Nixon e Mao dell’anno successivo. Il disgelo promosso dall’allora presidente USA era studiato in funzione anti-sovietica e preparò l’apertura della Cina al capitalismo internazionale.

 

L’analogia degli eventi odierni con quelli di quasi cinquant’anni fa risiede nella probabile intenzione di Trump di creare un solco tra Pyongyang e Pechino, sottraendo potenzialmente la Corea del Nord all’influenza cinese. I rapporti tra i due alleati sono d’altra parte peggiorati negli ultimi anni e, in particolare, dopo l’insediamento di Trump e le pressioni di Washington su Pechino per restringere i rapporti economici e commerciali col vicino nord-orientale.

 

Il regime di Kim ha spesso indirizzato critiche non troppo velate all’alleato cinese, mentre relativamente frequenti sono le dichiarazioni che auspicano una distensione totale con gli Stati Uniti. Giovedì, ad esempio, il presidente sudcoreano, Moon Jae-in, in un incontro con la stampa ha affermato che Kim avrebbe espresso la disponibilità a rinunciare alle proprie armi nucleari senza chiedere in cambio, come aveva sempre fatto finora, l’evacuazione dei circa 28 mila soldati americani di stanza in Corea del Sud.

 

La complessità della situazione e i legami storici della Corea del Nord con la Cina rendono in ogni caso tutt’altro che agevole questa evoluzione, come ha dimostrato la recente trasferta di Kim a Pechino in previsione dell’incontro con Trump e, ancora prima, con il presidente sudcoreano.

 

L’attitudine di Trump nei confronti della Corea del Nord risponde in parte anche al bisogno di creare un qualche successo di risonanza globale per contenere la marea di attacchi che sul fronte interno si stanno abbattendo sulla sua amministrazione. Le difficoltà del presidente repubblicano di muoversi in questa come in altre direzioni sono però già emerse negli ultimi giorni con le critiche di svariati membri del Congresso alla segretezza con cui la Casa Bianca avrebbe deciso di condurre i preparativi dell’incontro tra Trump e Kim.

 

Il fatto poi che il capitolo Corea del Nord sia stato affidato a Pompeo e che a occuparsene sia anche il neo-consigliere per la Sicurezza Nazionale, John Bolton, ovvero uno dei falchi “neo-con” più irriducibili di Washington, è sintomatico delle intenzioni non esattamente accomodanti dell’amministrazione Trump. Il prossimo segretario di Stato ha frequentemente incoraggiato la linea dura contro Pyongyang e qualche mese fa aveva ad esempio ipotizzato apertamente il possibile assassinio mirato di Kim Jong-un, vista la necessità da parte americana di “separare” il leader nordcoreano dal suo arsenale nucleare.

 

In definitiva, il vertice tra Trump e Kim, se anche dovesse avere luogo, potrebbe risolversi in una serie di imposizioni da parte del presidente americano e, in caso di rifiuto, fornirebbe la giustificazione per un ritorno alla minaccia di un’aggressione militare.

 

Se, al contrario, il faccia a faccia finisse per dare i risultati sperati e, nel medio o lungo periodo, portare alla distensione se non addirittura a un allineamento strategico tra Washington e Pyongyang, i nuovi scenari non favorirebbero necessariamente un clima di pace in Asia orientale. Con ogni probabilità, infatti, un accordo o un trattato di pace a tutti gli effetti con la Corea del Nord potrebbe essere sfruttato dagli Stati Uniti per passare a una nuova e ancora più pericolosa fase del confronto strategico con potenze ben più minacciose come Russia e Cina.

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