La trasferta a Pechino di settimana scorsa dei rappresentanti dell’amministrazione Trump non ha avuto alcun effetto benefico sulla nascente guerra commerciale tra gli Stati Uniti e la Cina. I negoziati riprenderanno comunque la prossima settimana a Washington, sempre nel quadro della minacciata imposizione di nuovi dazi da parte americana sulle importazioni cinesi per un valore fino a 150 miliardi di dollari.

 

 

Il governo di Pechino ha finora tenuto un comportamento relativamente cauto di fronte alle tendenze protezionistiche della Casa Bianca. A ben vedere, tuttavia, quella presentata dalla delegazione americana settimana scorsa alla propria controparte cinese non è tanto una lista di provvedimenti per riequilibrare la bilancia commerciale, quanto una serie di ultimatum inaccettabili il cui rifiuto possa giustificare una nuova escalation delle pressioni sulla seconda potenza economica del pianeta.

 

La Cina ha a sua volta sottoposto i propri desiderata sul fronte commerciale al segretario al Tesoro USA, Steven Mnuchin, ma anche in questo caso le richieste sono sembrate scontrarsi con le condizioni imprescindibili fissate dall’amministrazione Trump per i negoziati. Alla fine, l’unico successo del summit è stato l’accordo sulla prosecuzione dei colloqui.

 

Assieme a Mnuchin, la Casa Bianca ha inviato a Pechino il segretario al Commercio, Wilbur Ross, il “rappresentante” USA per il Commercio, Robert Lighthizer, e il consigliere di Trump sulle questioni commerciali, Peter Navarro. Questi ultimi due sono considerati gli esponenti della linea dura nei confronti della Cina, mentre Mnuchin e Ross sarebbero attestati su posizioni parzialmente più moderate.

 

La retorica americana sulle disparità commerciali con Pechino è comunque destinata a intensificarsi in vista dei prossimi incontri, alla luce anche dei dati sugli scambi bilaterali di aprile che indicano un aumento del surplus cinese, salito addirittura del 44% rispetto al mese precedente fino a toccare 22,19 miliardi di dollari.

Un’altra statistica disponibile in questi giorni potrebbe dare ulteriori argomenti alla Casa Bianca per attaccare la Cina, così come allo stesso tempo dimostra la complessità degli scenari entro i quali gli Stati Uniti sono costretti a muoversi.

 

Dopo l’introduzione da parte americana di pesanti dazi doganali sulle importazioni di acciaio e alluminio a fine marzo, diretti non solo contro Pechino, le esportazioni cinesi in questo ambito sono comunque aumentate nel mese di aprile. Secondo gli analisti ciò sarebbe dovuto almeno in parte al rialzo delle quotazioni seguito alle sanzioni imposte dagli USA contro il gigante russo dell’alluminio Rusal.

 

Descrivere quella in atto tra USA e Cina come una guerra commerciale è ad ogni modo riduttivo. Con il chiarirsi delle posizioni americane è risultato sempre più evidente che le iniziative adottate da Washington, così come quelle tuttora in fase di elaborazione, hanno un obiettivo più ampio e si inseriscono in una strategia che punta a contenere la stessa ascesa globale della Cina in quanto principale minaccia alla declinate posizione di dominio degli Stati Uniti.

 

I più recenti documenti strategici dell’intelligence e dell’apparato militare americano identificano d’altra parte la Cina, assieme alla Russia, come la principale minaccia alla “sicurezza nazionale” degli USA, in uno scenario planetario caratterizzato ormai non tanto dal proliferare del terrorismo internazionale quanto piuttosto dalla “competizione tra grandi potenze”.

 

Gli sforzi in questo senso degli Stati Uniti intendono così integrare anche la guerra sul fronte commerciale ed economico, come ha confermato ad esempio la recente richiesta al Congresso di Washington del segretario alla Difesa, James Mattis, di inserire nella legge sul finanziamento delle forze armate americane misure più stringenti riguardo gli investimenti cinesi negli USA.

 

Mattis ha invocato maggiori poteri per la speciale commissione incaricata della supervisione e dell’eventuale blocco di investimenti e acquisizioni di compagnie americane da parte di soggetti stranieri. Il bersaglio principale è ovviamente Pechino e lo stesso Mattis è andato al cuore del problema, dal punto di vista della classe dirigente americana, citando i rischi per la “sicurezza nazionale” derivanti dall’ottenimento da parte della Cina di determinati strumenti tecnologici d’avanguardia.

 

Precisamente questo aspetto è in cima alla lista delle priorità americane nelle dispute commerciali in atto con Pechino. Nello specifico, l’amministrazione Trump intende ostacolare, se non far naufragare del tutto, il cosiddetto piano “Made in China 2025” che dovrebbe trasformare la Cina entro questa data in una potenza tecnologica di primaria importanza, con evidenti conseguenze sulla posizione e la supremazia internazionale degli Stati Uniti, in ambito militare e non solo.

 

Le implicazioni per il capitalismo americano di un possibile primato tecnologico cinese sono difficili da sottovalutare e proprio per cercare di impedire un’evoluzione in questo senso la delegazione americana in Cina ha chiesto settimana scorsa precise concessioni.

 

Tra i diktat della Casa Bianca c’è infatti lo stop a quelli che il governo americano definisce come “furti” di tecnologia, di proprietà intellettuale e di segreti industriali. Per Washington, Pechino obbligherebbe le aziende americane che entrano in “joint ventures” con quelle cinesi a cedere informazioni sensibili, il cui trasferimento a una potenza straniera rappresenta una minaccia alla sicurezza nazionale americana.

 

Il governo cinese ha sempre ribattuto che non esiste alcuna imposizione né “trasferimento forzato” di segreti tecnologici, ma si tratterebbe di scambi volontari di informazioni cruciali nel quadro degli accordi stipulati tra compagnie dei due paesi.

 

Al di là della disputa specifica, la questione centrale è rappresentata dallo sviluppo tecnologico della Cina in vari ambiti e la lista delle richieste americane include infatti un riferimento esplicito al piano “Made in China 2025”. Gli inviati di Trump vorrebbero ad esempio che Pechino si astenga da ritorsioni contro eventuali provvedimenti americani diretti a limitare gli investimenti cinesi nei settori tecnologici più “critici” per la sicurezza nazionale americana.

 

Simili iniziative sono peraltro già state prese di recente e hanno colpito, tra le altre, le compagnie di telecomunicazioni Huawei e ZTE, le quali il governo USA sta cercando sempre più di escludere dal mercato americano, in primo luogo per ostacolare lo sviluppo cinese dello standard wireless 5G.

 

Com’è evidente, richieste come quella appena descritta possono difficilmente rappresentare un punto di partenza per un negoziato bilaterale, visto che comporterebbero una rinuncia da parte della Cina delle proprie politiche di sviluppo, consegnandole di fatto al governo di Washington e ai suoi interessi.

Questa e le altre istanze consegnate ai rappresentanti cinesi dal segretario al Tesoro USA sono state infatti descritte da un commento del Financial Times come una “richiesta di disarmo unilaterale, in previsione di una potenziale guerra commerciale”, e di abbandono puro e semplice “degli elementi chiave della politica industriale” di Pechino.

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