La guerra commerciale in corso tra Stati Uniti e Cina è sembrata raffreddarsi in questi giorni dopo che esponenti del governo americano hanno annunciato qualche progresso nei colloqui bilaterali in corso. Il secondo incontro in poche settimane tra i rappresentanti di Washington e Pechino ha in realtà lasciato aperte tutte le questioni cruciali sulla questione, mentre le modeste aperture ostentate dal presidente Trump hanno suscitato una valanga di critiche dai suoi oppositori per la presunta arrendevolezza mostrata nei confronti di un rivale strategico.

 

 

Sui dettagli o, meglio, sull’assenza di dettagli dell’intesa provvisoria raggiunta lo scorso fine settimana si è aperta una controversia mediatica che ha in primo luogo evidenziato la confusione e le divisioni all’interno della stessa amministrazione Trump sull’approccio al “problema” cinese.

 

Il neo-consigliere economico del presidente, Larry Kudlow, aveva ad esempio annunciato l’accoglimento da parte cinese della richiesta americana per una riduzione del deficit commerciale USA con Pechino pari a 200 miliardi di dollari. In un’intervista televisiva, Kudlow ha però successivamente ammesso di essere stato precipitoso nello stimare le promesse degli inviati cinesi.

 

Infatti, le dichiarazioni ufficiali di entrambe le parti seguite al vertice hanno indicato solo un possibile generico aumento delle importazioni dagli Stati Uniti da parte cinese in ambito agricolo ed energetico, difficilmente quantificabili in 200 miliardi di dollari.

 

Il segretario al Tesoro USA, Steven Mnuchin, ha comunque confermato a Fox News nella giornata di domenica che la Casa Bianca intende “sospendere” la guerra commerciale con Pechino. I dazi per 150 miliardi di dollari sulle esportazioni cinesi minacciati da Trump saranno cioè messi da parte almeno per la durata dei colloqui bilaterali in atto. Sempre Mnuchin ha confermato l’accordo su un qualche meccanismo per far salire le importazioni di prodotti americani da parte della Cina, ma senza citare la cifra di 200 miliardi a cui aveva fatto riferimento Kudlow, così come altri membri dell’amministrazione Trump ancora prima del vertice di Washington.

 

Il numero uno del Tesoro USA ha poi aggiunto che il governo cinese avrebbe acconsentito ad adottare “cambiamenti strutturali” per venire incontro a due richieste cruciali da parte della Casa Bianca: facilitare la competizione delle compagnie americane sul mercato cinese e, soprattutto, proteggere la proprietà intellettuale della tecnologia “made in USA”.

 

Da parte loro, gli organi di stampa ufficiali cinesi hanno evidenziato un tono in larga misura ottimistico al termine del secondo round di colloqui sulle questioni commerciali. In particolare, il governo di Pechino è sembrato sollevato dalla disponibilità di almeno una parte della delegazione americana a proseguire i negoziati con un atteggiamento tutto sommato pragmatico.

 

Il relativo entusiasmo dell’amministrazione Trump si è scontrato invece con le preoccupazioni di molti commentatori e politici di entrambi gli schieramenti. Dalle analisi della stampa USA è trapelato il timore che la Casa Bianca possa finire per accontentarsi di una promessa sul riequilibrio della bilancia commerciale con la Cina, senza ottenere nulla sul fronte delle “riforme” relative all’accesso al mercato di questo paese e su quello che viene spacciato come il “furto” della tecnologia d’avanguardia americana da parte di Pechino.

 

Quest’ultima questione si incrocia con quella del colosso cinese delle telecomunicazioni ZTE, passato nelle ultime settimana da oggetto delle ire dell’amministrazione Trump a beneficiario di concessioni ingiustificate, quanto meno secondo la ricostruzione della stampa “mainstream” d’oltreoceano.

A ZTE era stato di fatto impedito l’accesso alle forniture di tecnologia americana lo scorso aprile come punizione per avere violato le restrizioni USA e autorizzato vendite di propri prodotti a entità iraniane e nordcoreane. Dopo la decisione di Washington, ZTE aveva annunciato la cessazione delle proprie attività, ma, a quanto pare su intervento diretto del presidente cinese Xi Jinping, pochi giorni più tardi Trump si era spinto fino a promettere una possibile marcia indietro da parte americana, sia pure nel quadro di un accordo di ampio respiro con Pechino sugli scambi commerciali.

 

La sorte di ZTE non è stata comunque affrontata nel documento ufficiale dell’ultimo vertice bilaterale e ciò, assieme all’assenza di misure concrete sul trasferimento di tecnologia americana verso la Cina, ha sollevato perplessità da più parti per la minaccia rappresentata da Pechino alla supremazia USA in questo ambito.

Il leader democratico al Senato, Charles Schumer, ha sottolineato la “debolezza” dell’amministrazione Trump nei negoziati e il pericolo di una possibile “capitolazione” americana di fronte al governo cinese. Sullo stesso tono sono state anche le critiche del senatore repubblicano Marco Rubio, il quale ha sollevato in maniera esplicita le implicazioni per la “sicurezza nazionale” americana della vicenda ZTE e, più in generale, della crescita tecnologica cinese.

 

Il punto centrale degli attacchi commerciali degli Stati Uniti contro la Cina non riguardano infatti tanto gli squilibri tra importazioni ed esportazioni, quanto appunto lo sviluppo tecnologico della seconda potenza economica del pianeta, delineato nel piano “Made in China 2025”. Questo progetto rappresenta potenzialmente una minaccia alla stessa supremazia economica e militare degli Stati Uniti in prospettiva futura e, infatti, riferimenti a esso erano contenuti nell’elenco di richieste sottoposte due settimane fa dai rappresentati di Trump recatisi a Pechino per il primo round dei negoziati in corso.

 

Con la relativa remissività mostrata nei giorni scorsi dall’amministrazione Trump, praticamente tutta la classe politica di Washington ha suonato l’allarme sull’assenza di richieste esplicite fatte a Pechino su questo fronte. Ciò conferma come le tendenze protezionistiche emerse in questi mesi non sono un’esclusiva della Casa Bianca, ma rispondono a imperativi condivisi dall’intero apparato di potere americano in uno scenario segnato dalla rapida erosione della posizione internazionale degli Stati Uniti.

 

Il senatore repubblicano Lindsey Graham ha così assicurato che il presidente dovrà fare i conti con non meglio precisate “conseguenze” se dovesse offrire concessioni alla Cina sulla posizione di ZTE, ovvero se non farà pressioni per una stretta al trasferimento di tecnologia. Nel concreto, in molti a Washington spingono per ottenere da Pechino misure concrete a questo proposito, come la cessazione da parte del governo del sostegno economico e logistico garantito al piano “Made in China 2025” o l’astensione dall’adottare ritorsioni contro gli USA se il governo americano decidesse di prendere di mira questo stesso progetto con sanzioni o altre misure punitive.

 

Il rinvio della questione legata a ZTE e, più in generale, all’evoluzione tecnologica cinese indica il persistere di nodi irrisolti nei rapporti commerciali tra Washington e Pechino. Nodi che molto difficilmente potranno essere sciolti, viste le implicazioni strategiche vitali per entrambi i paesi.

 

A dare un quadro più realistico della situazione, al di là dell’ottimismo ostentato dai due governi, è stato tra gli altri un esperto delle relazioni tra le due potenze dell’università Renmin di Pechino citato dalla Reuters in un suo intervento a una conferenza nella capitale cinese. Quest’ultimo ha messo in guardia da un atteggiamento “ciecamente ottimista”, visto che la Cina potrebbe anche essere disposta ad accettare “una riduzione del surplus commerciale” con gli USA o “un abbattimento delle barriere di ingresso nel proprio mercato”, ma, più che comprensibilmente, non intende scendere a compromessi sulla “propria politica industriale”.

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