Le manifestazioni di protesta che stanno scuotendo in questi giorni il regno di Giordania sono le più imponenti dal 2011, quando il paese mediorientale fu poco più che sfiorato dalla cosiddetta “Primavera Araba”. Alla base delle richieste della popolazione scesa nelle piazze ci sono sempre e in primo luogo questioni di natura economica, ma nello specifico le agitazioni sociali in corso sono causate da una serie di misure di austerity adottate dal governo in cambio di un prestito del Fondo Monetario Internazionale (FMI).

 

 

Il persistere delle dimostrazioni ha portato lunedì alle dimissioni del primo ministro, Hani al-Mulki, nominato dal sovrano Abdullah II un paio di anni fa per cercare di risollevare l’economia giordana attraverso un’agenda liberista. Gli avvicendamenti di governo sono diventati il metodo preferito dal re hascemita, vero centro del potere in Giordania, per rispondere alle crisi e alle proteste popolari nel suo paese. In quest’occasione, tuttavia, la gravità della situazione e il sommarsi di una serie di dinamiche interne e regionali sembrano minacciare in maniera particolarmente seria la stabilità del regno.

 

A scatenare la mobilitazione era stata una legge preparata dal governo e in fase di discussione in parlamento per cambiare il regime fiscale giordano. A prima vista, il provvedimento appariva tutto sommato equo, visto che intendeva alzare le tasse per le imprese e allargare la base dei contribuenti dal 5% al 10% della popolazione. Inoltre, in un paese con un reddito medio di poco superiore ai 7.500 dollari l’anno, sarebbero continuati a essere esclusi dall’imposizione fiscale i redditi individuali inferiori a circa 11 mila dollari e famigliari sotto ai 22.400.

 

In realtà, per cominciare, il costo della vita soprattutto nella capitale Amman, dove risiede un terzo della popolazione giordana, è stimato essere il più alto di tutto il Medio Oriente, Dubai inclusa, così che il previsto aumento delle tasse avrebbe rischiato di incidere su un numero di persone molto superiore a quello suggerito dai piani del governo.

 

Inoltre, a intensificare le proteste sono state altre misure seguite a quelle fiscali, come l’aumento del costo dei carburanti e dell’energia elettrica, rispettivamente del 5% e del 19%. Aumenti che si sono sommati a quelli già introdotti con la legge di bilancio del mese di gennaio, la quale alzava la tassa sui consumi per più di cento prodotti, tra cui alcuni di prima necessità, e servizi fondamentali, come i trasporti pubblici. Le proteste sono comunque animate per il momento soprattutto da studenti ed esponenti della classe media giordana.

 

Il primo sciopero, indetto mercoledì scorso da una trentina di sindacati giordani, e le successive proteste avevano convinto re Abdullah a congelare gli aumenti dei prezzi, ma ciò non ha fermato le manifestazioni. I dimostranti insistevano sulle dimissioni del governo che sono puntualmente arrivate nella giornata di lunedì.

Il sovrano ha nominato a capo dell’esecutivo il ministro uscente dell’Educazione ed ex economista della Banca Mondiale, Omar al-Razzaz, ma, visti i suoi legami con l’establishment e il molto probabile orientamento ugualmente liberista in ambito economico, le proteste non hanno accennato a diminuire. Mercoledì, infatti, è previsto un nuovo sciopero generale, in attesa di sviluppi sulla sorte della controversa riforma fiscale dopo che Abdullah ha ordinato una revisione e un nuovo dibattito sul pacchetto legislativo.

 

Tutti i provvedimenti anti-sociali adottati o programmati dal governo giordano sono dettati dal FMI. Nel 2016, quest’ultimo aveva approvato un prestito triennale da 723 milioni di dollari in cambio di un programma di risanamento per ridurre il debito del paese, stimato attorno ai 40 miliardi di dollari, dal 94% al 77% del PIL entro il 2021.

 

Anche in Giordania, l’intervento del Fondo ha svariati precedenti segnati dalla dura opposizione popolare e da bruschi ripensamenti da parte dei governi nell’implementare l’austerity imposta dall’esterno. Nel 2012, ad esempio, l’annuncio di un imminente aumento del prezzo dei carburanti fu alla base di altri disordini nel paese mediorientale.

 

Soprattutto la mancanza di risorse energetiche e la tradizionale presenza di un numero enorme di profughi entro i propri confini rendono la situazione economica della Giordania cronicamente precaria. A tenere di fatto in piedi il paese e il regime hascemita sono da sempre gli aiuti internazionali, erogati sostanzialmente in cambio della difesa da parte di Amman degli interessi strategici delle potenze internazionali (Stati Uniti) e regionali (Arabia Saudita).

 

In questi anni, la Giordania ha però sofferto delle conseguenze della guerra nella vicina Siria. Oltre a privare il paese di un importante partner commerciale e a ridurre sensibilmente i flussi turistici, il conflitto ha spinto inevitabilmente in Giordania altre centinaia di migliaia se non milioni di rifugiati, provenienti sia dalla Siria sia dall’Iraq, in aggiunta ai circa due milioni di palestinesi che da decenni vivono in campi ormai in buona parte trasformati in insediamenti fissi. La popolazione della Giordania è così passata dai 5,5 milioni del 2003 ai quasi dieci milioni odierni.

 

Le già scarse risorse del paese possono sostenere sempre meno questo sforzo e, ad aggravare la situazione, è il restringimento dei contributi provenienti dall’estero. Gli Stati Uniti hanno da parte loro aumentato di 275 milioni di dollari l’anno gli aiuti destinati all’alleato giordano, impegnandosi a versare nelle casse del governo di Amman sei miliardi nei prossimi cinque anni.

 

Questa cifra resta però una minima parte del fabbisogno totale e non può compensare né i tagli decisi dall’amministrazione Trump all’agenzia ONU che si occupa dei profughi palestinesi (UNRWA) né, soprattutto, la chiusura dei rubinetti da parte delle monarchie sunnite del Golfo Persico, ad esclusione del Kuwait.

La perdita per la Giordania è stimata come minimo attorno al miliardo di dollari l’anno. Le ragioni dell’irrigidimento di Arabia Saudita ed Emirati Arabi sono da ricercare sia nell’approccio di Amman ad alcune questioni che coinvolgono questi regimi sia nel mutamento degli scenari strategici in Medio Oriente.

 

Per quanto riguarda il primo aspetto, il New York Times ha scritto martedì di un “percorso progressivamente sempre più indipendente”, intrapreso dalla Giordania, rispetto ai suoi “benefattori del Golfo” su alcune recenti vicende mediorientali, tra cui lo status di Gerusalemme e le tensioni sul Qatar. Il regime di Abdullah ha cioè da un lato preso una posizione più dura di Arabia Saudita ed Emirati sul trasferimento dell’ambasciata americana da Tel Aviv a Gerusalemme e, dall’altro, non ha seguito la linea dura di questi paesi nei confronti del Qatar, preso di mira in sostanza per il suo atteggiamento troppo tenero verso l’Iran.

 

Le divergenze tra Amman e Riyadh sono state ad ogni modo un percorso obbligato per i vertici giordani, poiché l’eventuale decisione di assecondare USA e Israele avrebbe prodotto pericolosissime tensioni sul fronte interno e, contemporaneamente, significato l’accettazione del ridimensionamento del ruolo della Giordania di guardiano dei luoghi sacri di Gerusalemme.

 

La disputa sul Qatar si intreccia invece con la formazione di una sorta di asse tra USA, Israele e Arabia Saudita in Medio Oriente in funzione anti-iraniana, a sua volta all’origine delle frizioni tra alcuni dei regimi del Golfo e Doha. L’esperto mediorientale Sean Yom ha scritto qualche giorno fa sul sito MiddleEastEye che la nuova alleanza di fatto tra questi tre paesi ha determinato “il capovolgimento del quadro geopolitico giordano” a partire dal 2016. Nel nuovo ordine venutosi a creare con questo allineamento, Amman sembra “non avere posto” e si ritrova a dover “cercare nuove alleanze per poter sopravvivere”.

 

La sostanziale liquidazione da parte dell’amministrazione Trump della soluzione dei “due stati” per il problema palestinese è un esempio lampante della potenziale marginalizzazione della Giordania, il cui governo si è sempre proposto come mediatore ed elemento centrale nelle trattative, visto il suo ruolo storico e la massiccia presenza di palestinesi sul proprio territorio.

 

L’inevitabile ricerca di nuovi partner e alleati come questione di sopravvivenza ha spinto così il regno hascemita verso la parte opposta della barricata, sia pure in maniera cauta. Da qui le aperture a Qatar e Turchia, ma anche i toni cordiali con l’Iran. Grande eco in Medio Oriente aveva avuto a questo proposito la stretta di mano tra Abdullah e il presidente iraniano, Hassan Rouhani, durante un incontro nel mese di maggio dell’Organizzazione della Cooperazione Islamica a Istanbul.

 

La stessa partecipazione all’evento da parte giordana aveva irritato il regime saudita perché all’ordine del giorno vi era appunto la condanna del trasferimento dell’ambasciata USA a Gerusalemme. A febbraio, il principe ereditario saudita Mohammad bin Salman aveva chiesto a Abdullah di non partecipare al summit e, incassato il rifiuto, aveva ordinato la cancellazione di uno stanziamento di 250 milioni di dollari in aiuti destinati ad Amman.

 

Un altro fronte problematico per la Giordania è quello della guerra in Siria. Amman aveva accettato di buon grado la collaborazione con gli sponsor internazionali dei “ribelli” anti-Assad, in larga misura per neutralizzare il pericolo rappresentato dalla presenza dello Stato Islamico (ISIS). Una volta eliminata questa minaccia, però, la Giordania si è mossa in maniera discreta per normalizzare i rapporti con il regime di Damasco, la cui sopravvivenza non rappresenta alcun rischio per la propria stabilità.

 

Ciò si scontra ovviamente con le mire americane, saudite e israeliane e l’interesse dei rispettivi governi di intensificare il conflitto per rovesciare il regime di Damasco. La conseguenza logica di questa dinamica è per la Giordania anche il potenziale avvicinamento alla Russia di Putin.

 

Tutti questi fattori hanno quindi contribuito ad alimentare i problemi economici e sociali di Amman, mentre l’impossibilità strutturale di cercare soluzioni diverse da austerity o prestiti del Fondo Monetario Internazionale ha finito per scatenare una nuova ondata di proteste popolari, il cui contenimento rappresenta un ulteriore fronte nella lotta per la sopravvivenza stessa della casa regnante giordana.

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