La relativamente imprevista uscita di scena in Spagna di Mariano Rajoy nel fine settimana è stata causata da una confluenza di fattori che hanno spinto verso il basso il livello di popolarità del primo ministro conservatore e di cui una sentenza per corruzione ai danni di ex esponenti di vertice del suo Partito Popolare (PP) né è stata di fatto il catalizzatore.

 

 

Se la rimozione di un leader oggettivamente reazionario dalla guida del governo spagnolo non può che essere un evento da celebrare, il prossimo futuro del paese iberico si presenta tutt’altro che roseo. Il contenuto progressista dell’intesa tra il Partito Socialista (PSOE) e il movimento “anti-establishment” Podemos, che ha portato alla mozione di sfiducia di venerdì, è tale se mai solo in prospettiva, mentre il nuovo governo di Pedro Sánchez rischia di essere da subito ancora più debole di quello appena deposto.

 

Il solo fatto che quella contro Rajoy sia stata la prima sfiducia mai approvata dal parlamento di Madrid dal ritorno alla democrazia testimonia comunque della gravissima crisi politica che continua ad attraversare la Spagna. I fatti degli ultimi giorni rappresentano il seguito delle elezioni inconcludenti che si erano tenute a pochi mesi di distanza tra il 2015 e il 2016. I risultati in entrambi i casi avevano indicato una rapida evoluzione verso il tracollo del sistema sostanzialmente bipartitico alla base della stabilizzazione della Spagna del dopo Franco, principalmente a causa delle politiche di rigore messe in atto in maniera pressoché indistinta da PSOE e PP.

 

In maniera singolare, gli eventi seguiti alle ultime elezioni, che portarono all’installazione di un nuovo governo Rajoy, ma di minoranza, avevano avuto proprio il neo-premier Pedro Sánchez tra i principali protagonisti. Per garantire la stabilizzazione della Spagna, i poteri forti del paese avevano favorito la conferma di Rajoy dopo essersi assicurati l’allontanamento di Sánchez dalla segreteria del PSOE.

 

Quest’ultimo era infatti contrario all’astensione dei deputati del suo partito per permettere la sopravvivenza di un governo di minoranza PP, così che ai suoi danni era stato orchestrato un vero e proprio golpe interno, il cui regista era stato l’ex primo ministro socialista Felipe González.

 

Cavalcando la crescente ostilità popolare verso il governo Rajoy e lo spostamento a sinistra dell’elettorato, soprattutto quello di riferimento del PSOE, Sánchez era però tornato alla guida del partito nel giugno 2017, nonostante l’opposizione dei suoi vertici.

 

Quelle stesse esigenze di stabilità che avevano favorito Rajoy hanno determinato ora la sua fine, sulla spinta di uno scandalo di corruzione all’interno del PP, giunto parzialmente all’epilogo con una clamorosa condanna il 24 maggio scorso, e di tensioni sociali pronte a riesplodere, come indicano i numerosi scioperi registrati in questi mesi.

 

Rajoy e il suo governo, in definitiva, non erano più in grado di garantire stabilità e rispetto degli impegni con l’Europa. Tanto più essendo il primo ministro uscente screditato anche dal ricorso a metodi profondamente anti-democratici nel reprimere le spinte indipendentiste in Catalogna.

 

Visti i precedenti nell’opporsi al governo Rajoy e il suo relativo appeal per un elettorato tendente a sinistra, Pedro Sánchez ha visto così salire velocemente le proprie quotazioni. Oltre ai voti di Podemos, il cui impegno per la creazione di un accordo col PSOE di stampo “progressista” è noto da tempo, decisivo è stato l’appoggio dei due principali partiti indipendentisti catalani e quello del Partito Nazionalista Basco, tutti contrari in passato a un possibile governo Sánchez.

 

Sull’inversione di rotta di questi movimenti ha influito la già ricordata necessità di evitare i riflessi negativi sull’interno sistema della deriva del governo di minoranza del PP. Per i catalani, tuttavia, non può non avere pesato anche lo scontro con Madrid sull’indipendenza e il pugno di ferro di Rajoy.

 

Se sulla crisi catalana Sánchez ha anch’egli escluso soluzioni al di fuori della Costituzione spagnola, i toni sono apparsi decisamente più concilianti e il dialogo con Barcellona pronto a iniziare. Probabilmente non a caso, nello stesso giorno in cui il leader del PSOE ha giurato come nuovo primo ministro di fronte al sovrano, a Barcellona si insediava il nuovo governo regionale, mettendo fine al controllo diretto da parte di Madrid sulla Catalogna deciso lo scorso ottobre da Rajoy.

 

Sui partiti regionali Sánchez dovrà fare affidamento per governare e già questo minaccia di rendere incerta la vita del nuovo esecutivo, per non parlare delle passate frizioni con Podemos. Il numero uno del PSOE ha prospettato la possibilità di un voto anticipato rispetto alla scadenza naturale della legislatura, prevista nel 2020. Da parte sua non c’è però alcuna fretta di andare a nuove elezioni, visto che i numeri del PSOE continuano a essere modesti. Un voto in tempi brevi potrebbe piuttosto favorire il partito di centro-destra Ciudadanos, la cui ascesa è anch’essa strettamente collegata all’ondata anti-establishment che ha investito la Spagna.

 

La difficile scommessa di Sánchez sarà dunque quella di stabilizzare e possibilmente risollevare il suo partito, dando una patina progressista al proprio programma di governo, e, in parallelo, di rassicurare mercati e investitori. Uno degli ambiti più delicati sarà ad esempio quello del mercato del lavoro e la possibile attenuazione degli effetti della “riforma” introdotta da Rajoy nel 2012. Qualsiasi ipotesi di invertire la tendenza alla deregolamentazione sarà però accolta con estrema ostilità dagli ambienti economico-finanziari spagnoli e internazionali.

 

Più in generale, le premesse della strategia politica di Sánchez non sono incoraggianti, né per il PSOE né per la Spagna. Il neo-premier ha infatti mostrato tutte le intenzioni di mantenere la legge di bilancio preparata da Rajoy e già approvata dalla camera bassa del parlamento di Madrid. Ciò si è reso necessario in primo luogo per garantirsi i voti dei nazionalisti baschi, i quali avevano appoggiato il bilancio del precedente governo dopo avere ottenuto finanziamenti per oltre 500 milioni di euro a beneficio della loro regione.

 

La legge finanziaria del governo uscente è nuovamente all’insegna della riduzione della spesa pubblica e si scontra perciò con l’impegno di Sánchez a risollevare le sorti del PSOE. Per raggiungere questo obiettivo è evidente che sia necessaria una rottura con le politiche di austerity perseguite finora a Madrid. Sánchez, peraltro, durante il dibattito parlamentare che ha portato alla sfiducia a Rajoy ha affermato apertamente di volere mantenere la “stabilità finanziaria” della Spagna, mandando così un chiaro messaggio di continuità a Bruxelles e ai mercati.

 

La strada del nuovo premier socialista è dunque molto stretta in vista di un nuovo e relativamente vicino appuntamento con gli elettori. Il nodo dell’indipendenza catalana e la scelta tra politiche restrittive o di crescita, con i relativi riflessi sulla pace sociale nel paese, saranno i fattori che determineranno in maniera decisiva il futuro del neo-nato governo spagnolo.

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