Tutte le prese di posizione e gli impegni, promessi dall’Europa per mantenere in vita l’accordo sul nucleare iraniano e resistere al tentativo di tornare al confronto con Teheran da parte dell’amministrazione Trump, sono molto probabilmente svaniti questa settimana in seguito a un’iniziativa che rappresenta la presa d’atto della sostanziale impotenza di Bruxelles davanti all’arroganza del governo americano nella promozione dei propri interessi strategici.

 

Subito dopo l’annuncio di Trump del 4 maggio scorso sul ritiro di Washington dall’intesa di Vienna del 2015 (JCPOA), i governi europei coinvolti nei negoziati avevano condannato la decisione e prospettato una serie di iniziative volte a salvare sia l’accordo sia i crescenti legami commerciali stabiliti dalle aziende private con la Repubblica Islamica.

 

 

L’obiettivo era principalmente quello di impedire che il reintegro delle sanzioni USA ai danni di Teheran potesse finire per penalizzare le compagnie europee in affari con soggetti iraniani, in pratica vedendo escluderle dal mercato o dal sistema finanziario americano.

 

A molti, la linea dura annunciata da Bruxelles era sembrata più che altro nascondere la debolezza delle posizioni europee e una realtà che prima o poi avrebbe comportato un adeguamento totale alle richieste di Washington.

 

Se la situazione rimane per certi versi ancora fluida, una lettera indirizzata a inizio settimana al dipartimento di Stato USA e a quello del Tesoro dai leader europei sembra corrispondere a una vera e propria resa. Il documento è stato pubblicato per la prima volta dal Wall Street Journal ed è in seguito apparso sull’account Twitter del ministro delle Finanze francese, Bruno Le Maire.

 

Nella lettera, i governi di Francia, Germania e Gran Bretagna, più la responsabile della politica estera EU, Federica Mogherini, chiedono agli Stati Uniti di esentare le compagnie europee dalle sanzioni che a breve saranno riattivate contro Teheran. I firmatari fanno appello a “interessi legati alla sicurezza”, propria e del Medio Oriente, poiché il precipitare della crisi iraniana “destabilizzerebbe ulteriormente una regione dove nuovi conflitti risulterebbero disastrosi”. Con l’applicazione senza eccezioni delle sanzioni punitive già subite in passato, d’altronde, il governo iraniano finirebbe inevitabilmente per uscire esso stesso dall’accordo di Vienna.

 

Avendo dunque riconosciuto l’impossibilità di tenere testa agli USA e di conservare o rafforzare le relazioni commerciali coltivate con l’Iran dopo il 2015, i vertici europei sono di fatto passati alla supplica, nella speranza, decisamente illusoria, di un ripensamento dell’amministrazione Trump nell’applicazione delle sanzioni contro Teheran.

 

Le possibilità che la lettera dall’Europa possa far cambiare idea alla Casa Bianca sono più o meno nulle. Da Washington si è tornati infatti a scegliere deliberatamente il percorso dello scontro con l’Iran, perché questo paese costituisce la principale minaccia al controllo americano del Medio Oriente e l’accordo sul nucleare consentiva invece a Teheran di perseguire, entro certi limiti, le proprie aspirazioni di potenza regionale.

 

L’inconsistenza delle promesse europee di creare un quadro legale per proteggere le aziende private operanti in Iran è apparsa chiara dalle decisioni a catena prese da alcune di queste ultime nell’ultimo periodo. Il gruppo automobilistico francese PSA (Peugeot/Citroen) ha ad esempio fatto sapere proprio questa settimana di avere iniziato a sospendere le operazioni in “joint venture” nel paese mediorientale per non incorrere in violazioni della legge americana. Progetti energetici e di business sono stati congelati anche dalla francese Total e dalla tedesca Siemens.

 

La Reuters ha inoltre riportato la decisione delle più importanti compagnie di raffinazione di petrolio europee di interrompere l’acquisto di greggio dall’Iran. Gli impianti gestiti, tra le altre, da ENI, Total, la spagnola Repsol o la greca Hellenic Petroleum non intendono rinnovare i contratti di acquisto in scadenza nei prossimi mesi, evidentemente scettici sulle possibilità dell’Europa di ottenere un’eccezione alla reintroduzione delle sanzioni americane.

 

Il potenziale stop alle forniture di petrolio iraniano indebolirà a sua volta i residui sforzi europei di resistere agli USA, visto che il settore energetico resta quello più significativo nei rapporti tra il paese mediorientale e il vecchio continente. I paesi EU importano in media circa 500 mila barili di greggio al giorno dall’Iran, cioè un quinto del totale esportato da questo paese. Secondo gli analisti, la quota attualmente destinata all’Europa potrebbe essere assorbita dall’Asia, a cominciare dalla Cina, contribuendo a spingere Teheran verso una sempre più evidente integrazione con i paesi situati oltre i propri confini orientali.

 

Gli ostacoli finanziari sono un altro aspetto determinante nelle decisioni delle compagnie europee di andare verso il disimpegno dall’Iran. Gli stessi colossi petroliferi finora attivi sul territorio della Repubblica Islamica hanno chiarito la natura di questi problemi, visto che, ad esempio, sarà pressoché impossibile trovare istituti assicurativi e bancari che garantiscano le importazioni e che processino i pagamenti.

 

L’efficacia delle imposizioni di Washington deriva ovviamente dall’importanza del mercato americano per la gran parte delle compagnie che sono tornate in Iran dopo l’accordo di Vienna, delle quali praticamente nessuna sarà disposta a preferire le opportunità offerte dall’Iran. Inoltre, un elemento cruciale rimane il ruolo primario del dollaro USA come moneta internazionale.

 

Che la questione iraniana stia andando verso il completo tracollo dell’accordo di Vienna è dimostrato anche dalla recente notizia che il governo di Teheran starebbe preparando nuove strutture per far ripartire l’arricchimento dell’uranio a uso civile. L’installazione di centrifughe non è di per sé in violazione del JCPOA, ma è evidente che la dichiarazione delle autorità nucleari iraniane è tutt’altro che trascurabile nel clima attuale.

 

A Teheran, soprattutto la fazione “moderata” o “pragmatica” della classe dirigente continua a essere favorevole alla permanenza nell’accordo sul nucleare. Tuttavia, in assenza di benefici concreti e con la prospettiva di vedere il paese nuovamente escluso dai circuiti economici e finanziari internazionali, non ci possono essere alternative alla liquidazione del JCPOA.

 

Per provare a salvare l’accordo, ancora prima dell’annuncio di Trump del 4 maggio, l’Europa aveva anche provato ad assecondare alcune delle “richieste” americane fatte all’Iran, così da cooptarle in un nuovo trattato rivisto. I punti chiave dei diktat USA erano e sono tuttora lo stop da parte dell’Iran al proprio programma di missili balistici, peraltro interamente legittimo, e la fine delle attività ritenute destabilizzanti nella regione mediorientale, come l’intervento in Siria a fianco di Assad, il sostegno a Hezbollah e quello, decisamente trascurabile, ai “ribelli” Houthi in Yemen.

 

Anche solo pensare che l’Iran avesse potuto prendere in considerazione simili questioni testimonia di per sé della natura illusoria delle aspettative dei governi europei, se non della loro disperazione o cattiva fede. Rinunciare ai missili o alla difesa dei propri interessi in Medio Oriente significherebbe infatti per la Repubblica Islamica accettare niente meno che uno status di semi-colonia degli Stati Uniti e dei loro alleati.

 

L’intera vicenda, insomma, ha dimostrato ancora una volta tutta la debolezza dell’Europa di fronte all’irrigidimento delle posizioni degli Stati Uniti e l’incapacità di elaborare una strategia ferma e coerente per la protezione dei propri interessi. La crisi iraniana minaccia così di riesplodere e, oltre ad aggravare una situazione già disastrosa in Medio Oriente, va ad aggiungersi alle altre questioni che stanno allargando rapidamente il solco tra le due sponde dell’Atlantico.

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