I risultati delle elezioni presidenziali e parlamentari di domenica in Turchia hanno premiato ancora una volta il presidente Erdogan e la sua scommessa politica, sia pure disegnando un quadro generale complesso e, almeno in previsione futura, non troppo incoraggiante per il partito di governo (AKP). Tra accuse di brogli e incidenti vari segnalati in alcuni seggi, Erdogan è apparso ancora il leader politico più popolare del paese euro-asiatico, sul quale sarà ora in grado di governare con mano ancora più ferma grazie all’entrata in vigore delle riforme costituzionali approvate a maggioranza risicata nel referendum dello scorso anno.

 

 

Come già nel voto del 2015, l’AKP di Erdogan non è stato in grado da solo di ottenere la maggioranza assoluta dei seggi in parlamento. Anche in questa occasione è stata necessaria la stampella del Partito del Movimento Nazionalista (MHP), la cui collaborazione con Erdogan ha contribuito in questi anni a spingere verso destra le politiche del governo di Ankara.

 

La prestazione elettorale dell’MHP è stata sorprendente. I consensi ottenuti hanno superato l’11%, vale a dire più del doppio di quanto gli veniva attribuito da molti sondaggi della vigilia. Alcune rilevazioni di opinione indicavano infatti una possibile perdita della maggioranza in parlamento per AKP e MHP, così come un probabile secondo turno nelle presidenziali con un Erdogan incapace di superare la soglia del 50%.

 

Quest’ultimo ha alla fine evitato un delicato ballottaggio che poteva risultargli fatale di fronte a un’opposizione compatta. Il suo immediato sfidante, Muharrem Ince del Partito Popolare Repubblicano (CHP) di centro-sinistra, ha sfiorato il 31%, con un risultato che è apparso nettamente superiore a quello del suo partito.

 

I kemalisti del CHP si sono fermati appena al di sotto del 23%, perdendo terreno anche rispetto alle elezioni di tre anni fa. Il dato deludente del maggiore partito di opposizione turco è dovuto in primo luogo al sentimento di ostilità che continua a suscitare il ricordo dei decenni al potere, soprattutto tra la base elettorale dell’AKP, a cominciare dalle classi popolari e dalla piccola borghesia religiosa.

 

Sul risultato del CHP pesa poi anche la strategia elettorale dei suoi leader, impegnati a favorire il Partito Popolare Democratico (HDP) curdo per limitare il successo dell’AKP. Grazie anche a questo aiuto, l’HDP è riuscito a superare l’altissima soglia di sbarramento del 10%, prevista dalla legge turca per l’assegnazione di seggi in parlamento. In caso di fallimento, i seggi di questo partito sarebbero stati redistribuiti e l’AKP ne avrebbe ottenuti almeno una cinquantina, assicurandosi da solo la maggioranza assoluta in parlamento.

 

Il risultato dell’HDP è comunque tra i dati più significativi del voto di domenica in Turchia. Soprattutto nelle regioni dove è forte la presenza della minoranza curda, le operazioni di voto si sono svolte infatti in un clima di pesanti intimidazioni. Nella città di Erzurum, ad esempio, in un seggio è avvenuta una sparatoria che avrebbe causato tre vittime, mentre a Suruc alcuni scontri durante le operazioni di voto hanno portato all’arresto di un numero imprecisato di persone.

 

Il candidato dell’HDP alle presidenziali, Selahattin Demirtas, pur essendo in carcere dal novembre del 2016 con accuse motivate politicamente di terrorismo, ha conquistato oltre l’8% dei voti, risultando il terzo candidato più votato dopo Erdogan e Ince.

 

Nel complesso, se ci sono pochi dubbi che Erdogan e l’AKP continuino a essere rispettivamente il politico e il movimento con il maggior seguito in Turchia, i risultati del voto sono almeno in parte falsati a causa del controllo esercitato sulle strutture di potere da parte del partito di governo.

 

Anche i dati sulla copertura mediatica delle elezioni confermano questa realtà. Senza considerare la repressione degli organi di stampa indipendenti o comunque non legati all’AKP, le rilevazioni sulle ore di trasmissione dedicate ai candidati alla presidenza dalla televisione pubblica turca mostrano differenze enormi. In campagna elettorale, Erdogan avrebbe avuto una copertura pari a 181 ore, contro le circa 15 ore di Ince e le sole tre ore della candidata del “Partito Buono”, Meral Aksener.

 

La situazione in cui si è svolto il voto del fine settimana è dunque sintomatica della deriva autoritaria a cui sta andando incontro da tempo la Turchia di Erdogan. Una deriva che sarà con ogni probabilità accentuata dalla trasformazione in repubblica presidenziale, sanzionata dalle elezioni appena tenute. La riforma costituzionale dello scorso anno ha in sostanza formalizzato uno scenario nel quale Erdogan operava già da uomo forte con poteri molto ampi.

 

L’abolizione della carica di primo ministro, la facoltà attribuita al presidente di scegliere liberamente i ministri, così come di nominare i giudici, imporre lo stato di emergenza, decidere del bilancio dello stato e legiferare per decreto, favoriranno ancora di più l’accentramento dei poteri nelle mani di Erdogan.

 

Il voto di domenica e il nuovo mandato ottenuto da quest’ultimo derivano ad ogni modo da un’evoluzione del quadro politico e sociale turco che sembrava mettere lo stesso presidente in una posizione sempre più precaria. L’anticipo di 17 mesi con cui le elezioni sono state indette è dovuto al timore di non riuscire a capitalizzare una riforma del quadro costituzionale, che Erdogan ha disegnato a misura sulle sue aspirazioni, per via del deteriorarsi del quadro economico e delle ripercussioni delle scelte di politica estera, in primo luogo riguardo la guerra in Siria.

 

L’insistenza di Erdogan nell’implementazione di politiche economiche espansive, con tassi di interesse contenuti e il continuo impulso a massicci progetti di infrastrutture, è dettata da ragioni di opportunità politica, ma rischia di aggravare fino a fare esplodere il problema del debito, con conseguenze negative già evidenti anche sul fronte degli investimenti esteri.

 

Queste difficoltà minacciano inoltre di sovrapporsi al precipitare delle relazioni con gli Stati Uniti e l’Occidente in genere, già in buona parte alla base del fallito golpe ai danni di Erdogan nell’estate del 2016. La svolta strategica che ha portato Ankara a ristabilire relazioni cordiali con la Russia, anche nel quadro di una certa collaborazione sul fronte siriano, resta uno dei fattori principali delle tensioni tra l’AKP e i governi alleati della NATO, tradizionalmente in buoni rapporti con la fazione kemalista della classe politica turca.

 

Erdogan, da parte sua, alla chiusura delle urne ha da un lato promesso di continuare sullo stesso percorso tenuto finora per quanto riguarda l’economia e la politica estera. Dall’altro, però, ha a tratti lanciato messaggi concilianti, invitando i suoi oppositori a “mettere da parte tensioni e risentimenti”, quasi a riconoscere la posizione relativamente precaria in cui potrebbe ritrovarsi nel prossimo futuro e la necessità di abbassare i toni dello scontro sul fronte domestico.

 

Per il momento, ad ogni modo, la scommessa di Erdogan si è dimostrata ancora una volta vincente. Il nuovo successo elettorale, a ormai 15 anni dalla sua prima affermazione alle urne, potrebbe tuttavia inaugurare un nuovo periodo di instabilità per la Turchia, sotto la spinta di fattori di ordine economico e strategico.

Allo stesso tempo, nonostante il clima repressivo e autoritario, l’opposizione all’AKP ha mostrato qualche segnale di vitalità, lasciando intravedere un possibile percorso unitario in grado forse di minacciare in maniera seria la longevità politica di un presidente apparentemente senza rivali interni.

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