Il momento del ritiro del giudice della Corte Suprema americana, Anthony Kennedy, è sempre stato visto come un avvenimento cruciale per gli equilibri giuridici e costituzionali degli Stati Uniti, visto il suo presunto ruolo di ago della bilancia tra i membri conservatori e quelli “liberal” all’interno del tribunale. Questo momento è alla fine giunto nella giornata di mercoledì e, come previsto, la notizia ha subito monopolizzato l’attenzione di praticamente tutti i media americani.

 

Se il centrismo di Kennedy è quanto meno discutibile, soprattutto in merito a determinate questioni, la sua uscita di scena a poche settimane dall’82esimo compleanno permetterà indiscutibilmente al presidente Trump di nominare un nuovo giudice reazionario che sposterà drammaticamente a destra il baricentro di una Corte già da tempo impegnata a smantellare l’edificio democratico americano.

 

 

La versione ufficiale vuole che Anthony Kennedy sia stato quasi sempre il giudice decisivo nei casi più delicati e politicamente rilevanti, per i quali era invece scontato il voto dei quattro colleghi dell’ala conservatrice e dei quattro di quella progressista.

 

In vista del suo ritiro, perciò, si prevedeva una battaglia epocale a Washington tra democratici e repubblicani per la nomina di un successore, ideologicamente più facile da identificare, in grado di dare un chiaro orientamento verso destra o verso sinistra alla Corte Suprema. Con Kennedy in pensione, Trump alla Casa Bianca e i repubblicani in maggioranza al Senato, dove le nomine dei giudici della Corte Suprema USA devono essere confermate, è facile prevedere quali saranno le conseguenze.

 

La composizione attuale del tribunale costituzionale americano è tuttavia già ben lontana dall’essere equilibrata dal punto di vista ideologico. E lo stesso giudice Kennedy, in linea di massima, non può oggettivamente essere considerato di orientamento “moderato” né, tantomeno, “liberal”. Il giorno in cui ha annunciato il ritiro è stato l’ultimo dell’anno giudiziario della Corte Suprema ed è stato preceduto da una serie di verdetti reazionari e anti-democratici, in cui Kennedy ha votato appunto con la maggioranza.

 

Alcune delle decisioni più gravi che hanno chiuso la stagione della Corte includono: la bocciatura di una legge della California che intendeva informare correttamente le donne della possibilità di accedere a contraccettivi e interruzione di gravidanza, la conferma del divieto di ingresso negli USA imposto da Trump ai cittadini di alcuni paesi musulmani, il ribaltamento della sentenza di un tribunale inferiore a difesa dei diritti degli omosessuali e la ratifica di leggi anti-sindacali in vigore in circa la metà degli stati americani.

 

Nel passato più o meno recente, Kennedy ha messo la sua firma anche su altre sentenze infauste e con pesanti implicazioni per i diritti democratici. Nel 2000, ad esempio, si unì alla maggioranza conservatrice nel caso “Bush contro Gore” che interruppe il riconteggio dei voti in Florida, assegnando di fatto la presidenza a George W. Bush.

 

L’altra macchia più grave sul curriculum di Kennedy è poi la redazione di suo pugno del testo della sentenza che nel 2010 aprì la strada ai contributi elettorali illimitati ai politici da parte delle corporations, incredibilmente riconosciute dalla Corte Suprema come soggetti con diritti alla libertà di espressione al pari di qualsiasi individuo.

 

La fama quanto meno di moderato del giudice Kennedy, per quanto infondata, è da riferire alla sua tendenza a schierarsi spesso con i colleghi “liberal” sui casi concernenti i diritti individuali, primi fra tutti quelli relativi all’aborto e ai matrimoni gay. Nel complesso, comunque, l’identificazione “centrista” di Kennedy non è dovuta tanto alle sue inclinazioni, quanto alla natura reazionaria della Corte Suprema negli ultimi anni, nonché, in generale, allo spostamento a destra del panorama politico e giudiziario americano.

 

A questo proposito, è significativo che alcuni giornali americani, in previsione di una nomina di un nuovo membro di estrema destra da parte di Trump, abbiano già identificato nel presidente della Corte Suprema, John Roberts, il prossimo “swing justice”, o ago della bilancia del tribunale. Nominato da Bush jr., Roberts è fino ad ora considerato unanimemente un membro della fazione conservatrice della Corte.

 

Il pericolo di un’ulteriore radicalizzazione ideologica del più alto tribunale degli Stati Uniti è comunque reale dopo il ritiro di Anthony Kennedy. La graduale erosione dei diritti democratici a cui sta contribuendo la Corte Suprema risulta ancora più preoccupante se si pensa che l’amministrazione Trump è nel pieno di uno sforzo per dare un’impronta autoritaria al sistema di governo americano. Basti pensare, al riguardo, alla violazione ripetuta dei diritti dei migranti, per i quali non è difficile prevedere la creazione di un sistema di detenzioni arbitrarie e indefinite possibilmente sanzionate nel prossimo futuro dalla Corte Suprema.

 

Un altro fronte caldo, a cui i giornali americani stanno dando particolare rilievo, è quello dell’aborto. È probabile infatti che Trump finisca per orientarsi verso la nomina di un giudice anti-abortista, con il risultato di creare per la prima volta alla Corte Suprema una maggioranza ultra-reazionaria favorevole al rovesciamento della sentenza del 1973 che negli USA garantì il diritto all’interruzione di gravidanza (“Roe contro Wade”).

 

Per avere un’idea di chi potrebbe sedere al posto di Anthony Kennedy alla Corte Suprema, uno dei candidati sulla lista di Trump è il giudice d’Appello William Pryor, il quale in una dichiarazione pubblica aveva definito la sentenza pro-aborto del 1973 “il peggiore abominio della legge costituzionale” nella storia degli Stati Uniti.

Il potere di modellare l’orientamento ideologico della Corte Suprema nelle mani di Trump potrebbe oltretutto essere ancora maggiore, se si pensa all’età di alcuni giudici tuttora al loro posto. Un impatto particolarmente pesante avrebbe il ritiro nei prossimi anni di uno o più giudici “liberal”. Eventualità tutt’altro che remota visto che, a parte le relativamente giovani Elena Kagan e Sonia Stomayor, nominate da Obama, i giudici Ruth Bader Ginsburg e Stephen Breyer hanno rispettivamente 85 e quasi 80 anni.

 

Sulla scelta da parte di Trump del prossimo membro della Corte Suprema si scatenerà ora una serie di manovre politiche, ma anche di accese polemiche, vista la sostanziale impotenza del Partito Democratico nell’intero processo.

 

Il primo round dello scontro è già scattato con l’invito, fatto alla leadership repubblicana del Senato dai vertici democratici, a rimandare a dopo il voto di “metà mandato” di novembre la valutazione del candidato prescelto dal presidente. Per tutta risposta, il numero uno dei repubblicani al Senato, Mitch McConnell, ha già assicurato che un voto per ratificare la nomina avrà invece luogo entro l’autunno.

 

I democratici vorrebbero teoricamente attendere dopo le elezioni di novembre nella speranza di riconquistare la maggioranza al Senato e bloccare la nomina del giudice scelto da Trump. Inoltre, McConnell nel 2016 si rifiutò di autorizzare anche solo le audizioni dell’allora candidato alla Corte Suprema nominato da Obama dopo la morte del giudice Antonin Scalia, sostenendo che il processo di conferma non poteva avvenire nel pieno della stagione elettorale.

 

La strategia repubblicana era ovviamente quella di attendere l’insediamento del nuovo presidente, confidando in una vittoria del candidato del proprio partito, per assicurarsi la nomina di un giudice conservatore. Le probabilità che il partito di maggioranza si lasci sfuggire l’occasione di decidere sul sostituto del giudice Kennedy sono comunque pari a zero.

 

Tanto più che i repubblicani lo scorso anno avevano cambiato le regole di voto del Senato che richiedevano una maggioranza allargata per la ratifica dei giudici della Corte Suprema. La decisione era stata presa in seguito all’ostruzionismo dei democratici sulla nomina del giudice Neil Gorsuch, indicato da Trump poco dopo l’ingresso alla Casa Bianca. Oggi, perciò, nonostante la maggioranza risicata al Senato, teoricamente ai repubblicani non servirebbe nemmeno un voto democratico per confermare il prossimo membro della Corte Suprema.

 

Alla luce comunque dei precedenti e delle inclinazioni di svariati senatori democratici, è più probabile forse che alcuni di questi ultimi finiscano per votare a favore di qualsiasi candidato proposto da Trump. Magari compensando eventuali defezioni repubblicane, nel caso ad esempio che il giudice in pectore dovesse essere contrario al diritto all’aborto.

 

Tre senatori democratici votarono d’altra parte a favore del giudice Gorsuch nel 2017 e oggi i commentatori americani ne hanno individuati una decina che potrebbero fare altrettanto con il candidato scelto da Trump, quelli cioè che a novembre dovranno cercare una difficile rielezione in stati tradizionalmente a maggioranza repubblicana.

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