La morte per un cancro al cervello di John McCain ha provocato un’ondata quasi unanime di cordoglio tra i politici americani di entrambi gli schieramenti, impegnati, assieme ai media ufficiali, a ricordare la presunta statura morale e l’attaccamento sempre dimostrato ai valori della democrazia dal senatore repubblicano dell’Arizona.

 

Questo ritratto corrisponde in realtà a un’immagine fortemente distorta dell’ex candidato alla Casa Bianca, la cui carriera politica è stata segnata per intero dall’appoggio incondizionato ai grandi poteri economici e, soprattutto, al militarismo e alle mire imperialistiche degli Stati Uniti.

 

Buona parte della fama conquistata negli ambienti di potere di Washington, McCain la deve agli oltre cinque anni di prigionia trascorsi in Vietnam, dove nel 1967 venne abbattuto assieme all’aereo che stava pilotando nel corso di un bombardamento. Da questo episodio, nel quadro di una guerra criminale nel paese del sud-est asiatico, deriva il titolo di “eroe di guerra” puntualmente attribuitogli dalla stampa e dai politici negli USA.

 

 

Un’associazione, quella di McCain, con il militarismo e la guerra, che aveva radici famigliari e che da allora lo avrebbe visto in prima linea nel sostenere tutte le avventure belliche del suo paese, senza mai mostrare il minimo scrupolo per sofferenze e distruzioni che egli stesso ebbe modo di testimoniare nel conflitto in Vietnam. L’uso della forza nell’imposizione degli interessi e degli indirizzi di politica estera americani è sempre stato così il principio a cui si è ispirata l’azione politica di McCain, mascherata dietro a riferimenti puramente esteriori a diritti umani e democrazia.

 

Un atteggiamento che negli ultimi due decenni ha peraltro contagiato in pratica tutta la classe dirigente degli Stati Uniti. Significativamente, proprio negli ambienti del Partito Democratico gli elogi del defunto McCain sono stati i più sentiti. Lo stesso senatore “democratico-socialista” Bernie Sanders ha ricordato, assieme all’amicizia che lo legava al collega-rivale, “l’integrità e l’indipendenza” di quest’ultimo.

 

Dall’invasione di Grenada del 1983 alla guerra in Nicaragua, dalla prima aggressione contro l’Iraq a quella della Serbia e dell’Afghanistan dopo l’11 settembre 2001, McCain ha sempre respinto l’esistenza di qualsiasi limite al raggiungimento degli interessi americani nel mondo. Il ruolo forse più importante in questo senso, e che gli sarebbe costato probabilmente la Casa Bianca nel 2008, lo svolse alla vigilia e durante la seconda guerra irachena. Sostenitore dell’Iraq Liberation Act del 1998, ovvero la formulazione ufficiale della politica di cambio di regime ai danni di Saddam Hussein, il senatore dell’Arizona accettò e contribuì a propagandare ogni menzogna dell’amministrazione Bush sul regime di Baghdad, per poi assecondarne anche la drammatica escalation del 2006-2007 nel tentativo di stabilizzare un paese devastato.

 

Con l’ex rivale nella sfida alla presidenza degli Stati Uniti condivise inoltre l’intervento in Libia e in Siria, sia pure criticando la “moderazione” di Obama. In quest’ultimo conflitto, soprattutto, McCain cercò di spingere Washington verso una rovinosa guerra totale contro Assad e i suoi alleati, giungendo nel 2013 a incontrare pubblicamente in Siria esponenti di formazioni “ribelli” fondamentaliste legate ad al-Qaeda e sostenute dalla CIA.

 

Lo stesso entusiasmo lo avrebbe di lì a poco mostrato anche in Ucraina in appoggio al golpe di estrema destra contro il governo filo-russo preparato dal dipartimento di Stato americano. Putin e la Russia furono d’altra parte altri bersagli dello zelo “democratizzatore” di John McCain. Prevedibilmente, partecipò in pieno alla caccia alle streghe del “Russiagate” contro il presidente Trump, del quale è stato spesso dipinto come la nemesi e una sorta di baluardo contro la deriva populista del Partito Repubblicano favorita dal nuovo inquilino della Casa Bianca.

 

La rivalità con Trump è stata reale e aspra, tanto che il presidente non dovrebbe partecipare ai funerali di McCain, mentre in precedenza era intervenuto per bloccare un comunicato funebre ufficiale della Casa Bianca. Lo scontro non è mai stato tuttavia tra moralità e imbarbarimento della politica USA, bensì, come l’intera faida esplosa attorno alle presunte interferenze di Mosca, sulle differenze di natura tattica relative alle scelte di politica estera americana promosse da due fazioni ugualmente reazionarie dell’establishment.

 

L’immagine attentamente studiata di politico “ribelle” e “anti-conformista”, salvo rari e quasi sempre trascurabili casi, è stata insomma smentita da un’ideologia e prese di posizione concrete di stampo conservatore sul fronte interno e da “falco” autentico e irriducibile su quello internazionale.

 

Quei valori di democrazia e i diritti umani che hanno trovato spesso posto nella retorica di McCain, così come nel racconto del suo operato da parte degli ammiratori nella galassia mediatica americana, sono stati all’occorrenza messi da parte fin troppo facilmente, ad esempio, nell’appoggio offerto dal defunto senatore a feroci dittature o all’oppressione israeliana del popolo palestinese. La cifra dell’azione politica di John McCain è stata in definitiva non la libertà di giudizio e l’impegno per la libertà e i principi democratici, bensì l’ipocrisia e la spietatezza nell’imporre la volontà dell’impero.

 

In altre parole, ben lontano dal rappresentare una sana alternativa alla politica di Washington, McCain ne ha incarnato piuttosto tutte le tendenze autoritarie e guerrafondaie in un frangente storico segnato dal rapido declino della posizione internazionale del suo paese. Proprio l’impegno costante e irremovibile nella promozione degli obiettivi dell’imperialismo americano gli ha garantito in questi giorni spropositati elogi funebri bipartisan, macchiati solo dall’emergere di divisioni all’interno del Partito Repubblicano sotto la spinta dell’ondata trumpiana e del precipitare della crisi degli Stati Uniti su scala globale.

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