Con una serie di bombardamenti contro le postazioni di al-Qaeda in Siria nord-occidentale, la Russia e il regime di Assad hanno di fatto iniziato questa settimana la prima fase della fondamentale offensiva che dovrebbe riportare il governatorato di Idlib sotto il controllo di Damasco dopo oltre sette anni di guerra istigata dall’Occidente.

 

Le operazioni russe sono solo l’antipasto di una campagna che deve ancora essere delineata dalle potenze coinvolte nel conflitto attraverso la riconciliazione di interessi disparati e contrastanti. L’incontro di venerdì a Teheran tra i presidenti di Russia, Iran e Turchia servirà probabilmente a chiarire le rispettive posizioni e a pianificare i tempi e le modalità di un attacco che potrebbe risultare decisivo per l’esito finale della guerra.

 

A Idlib, com’è noto, sono stati fatti convergere decine di migliaia di guerriglieri delle milizie “ribelli” anti-Assad costretti ad abbandonare i territori man mano riconquistati dal regime. Il governatorato settentrionale è l’unico ancora controllato dalle organizzazioni armate dell’opposizione e in questo stesso territorio sono giunti anche civili sfollati da altre località dopo gli scontri dei mesi scorsi quasi sempre favorevoli alle forze governative.

 

Nonostante in queste settimane i governi occidentali abbiano ripetuto in varie occasioni che l’offensiva di Idlib rischia di provocare un bagno di sangue, Mosca e Damasco hanno da tempo creato corridori umanitari per l’evacuazione della popolazione civile. Alla maggior parte di essa i “ribelli” continuano però a impedire di lasciare la provincia. Questi ultimi hanno anche respinto qualsiasi accordo con Assad e il Cremlino per consentire l’allontanamento dei civili.

 

Attorno alla sorte di Idlib sono in corso frenetiche manovre diplomatiche e militari. Tutte le parti impegnate nella crisi condividono ufficialmente l’idea che la presenza jihadista nel governatorato debba essere in qualche modo affrontata ed eliminata. Per Siria, Russia e Iran il tempo delle trattative è scaduto e l’opzione militare appare ormai l’unica in grado di ripulire l’area dalle milizie fondamentaliste e ristabilire su di essa il legittimo controllo di Damasco.

 

Turchia, Stati Uniti e i loro alleati arabi stanno invece cercando in tutti i modi di prendere tempo e, in sostanza, di difendere terroristi e “ribelli” armati stanziati a Idlib. Questi paesi sono costretti ad ammettere che qui la presenza di uomini di al-Qaeda è massiccia, ma la loro soluzione basata sulla separazione di guerriglieri “buoni” e “cattivi”, che avrebbe dovuto essere applicata da tempo, non ha nessuna possibilità di successo.

 

Questo compito era stato assegnato alla Turchia nel quadro dei negoziati di Astana tra Ankara, Mosca e Teheran. Erdogan non è però mai stato in grado di portare a termine l’incarico ed evitare un attacco militare da parte di Damasco. Le formazioni armate di tendenze fondamentaliste si sono infatti sempre rifiutate di abbandonare le armi o di trattare con Assad. Inoltre, le milizie relativamente più “moderate”, spesso appoggiate dalla stessa Turchia, hanno fatto intendere di essere pronte piuttosto a unirsi ai jihadisti nel caso Siria e Russia dovessero sferrare un attacco nel territorio di Idlib.

 

Qui le fazioni sul campo sono sostanzialmente due, anche se al loro interno ci sono numerosi sottogruppi più o meno indipendenti. Una è quella filo-turca dominata dal Fronte di Liberazione Nazionale (NLF), vicino ai Fratelli Musulmani, che comprende varie milizie, tra cui la tutt’altro che moderata Ahrar al-Sham. Quest’ultima è stata fondata da un ex militante di al-Qaeda ed è diventata tristemente famosa qualche anno fa in seguito alla pubblicazione di un filmato che documentava la decapitazione di un ragazzo dodicenne.

 

Nel fronte teoricamente rivale spicca invece la presenza di Hayat Tahrir al-Sham (HTS), cioè l’ex Fronte al-Nusra, ovvero la succursale di al-Qaeda in Siria. Ancor più dei gruppi sostenuti dalla Turchia, questa e le formazioni a essa collegate sono composte in larga misura da combattenti provenienti da altri paesi, a conferma della natura non esattamente indigena della “rivolta” contro il regime di Damasco.

 

Secondo la maggior parte degli osservatori, un assalto delle forze russe e siriane a Idlib potrebbe concludersi in tempi relativamente brevi, visto che le milizie “ribelli” si ritrovano a corto di forniture di armi dopo il disimpegno in questo senso deciso dall’amministrazione Trump e dagli altri principali sponsor. Molti negli USA continuano in ogni caso a chiedere il trasferimento di armi all’opposizione anti-Assad a Idlib come condizione fondamentale per impedire l’avanzata del regime e il mantenimento di una situazione di caos nel paese.

 

Anche se questa ipotesi dovesse rimanere sulla carta, l’impegno occidentale per la difesa dei guerriglieri fondamentalisti a Idlib non è certo venuto meno. Gli avvertimenti e le minacce lanciate contro Damasco in queste settimane, così come i movimenti di forze registrati in particolare da parte statunitense, indicano la persistente disponibilità a intervenire direttamente nel conflitto.

 

Da Washington i messaggi inviati ad Assad sono molteplici. Quasi tutti agitano ancora una volta lo spettro di un attacco contro i civili con armi chimiche come la “linea rossa” oltre la quale il regime tornerebbe a essere il bersaglio di un’offensiva militare. Blitz, o presunti tali, condotti utilizzando sarin, cloro o altre sostanze tossiche sono stati attribuiti più volte in questi anni al regime di Damasco, nonostante ricerche e indagini giornalistiche indipendenti abbiano sempre ricondotto le operazioni a “false flag” orchestrate dai “ribelli” per far ricadere la colpa su Assad.

 

Oggi, perciò, il riferimento alle armi chimiche degli esponenti del governo americano suona come un invito alle formazioni armate arroccate a Idlib a inscenare una nuova operazione di questo genere. Ciò fornirebbe la giustificazione per un intervento dell’Occidente contro il regime sotto forma di supporto aereo a difesa dei “ribelli” stessi.

Trump, da parte sua, pur non parlando di armi chimiche, qualche giorno fa è intervenuto sulla questione di Idlib, mettendo in guardia Siria, Russia e Iran dal creare una “potenziale tragedia umana” con un’offensiva a Idlib. Le opzioni degli USA sono ad ogni modo limitate e, alla luce degli avvertimenti e del dispiegamento di forze russe, un’azione contro il regime di Damasco risulterebbe estremamente rischiosa.

 

Se è evidente che un’operazione in piena regola delle forze governative siriane per la riconquista di Idlib comporterebbe un alto livello di distruzione e sofferenza per la popolazione civile, è altrettanto innegabile che USA e Turchia non hanno soluzioni percorribili per risolvere una situazione di cui sono i primi responsabili e nella quale quasi due milioni di persone continuano a vivere sotto la dominazione di gruppi terroristici sul territorio di un paese sovrano.

 

La sorte dei civili di Idlib è comunque l’ultima delle preoccupazioni degli Stati Uniti e dei loro alleati. Basti pensare, per quanto riguarda la sola crisi siriana, alla distruzione e al numero di morti provocati dagli assedi americani contro le roccaforti dello Stato Islamico (ISIS) a Raqqa, sempre in Siria, e a Mosul, in Iraq. Lo stesso conflitto siriano è in larga misura responsabilità degli USA, i quali hanno in definitiva fomentato e alimentato una tragedia immane per i propri fini strategici in Medio Oriente.

 

A Washington si cercherà comunque di impedire o ritardare in tutti i modi l’operazione di Damasco a Idlib. Le già ricordate provocazioni dei “ribelli” con armi chimiche non sono da escludere, visto anche che i preparativi per una nuova messa in scena di questo genere sembrano essersi messi in moto.

 

Come minimo, l’amministrazione Trump, assieme ai media ufficiali, continuerà a tenere alti i toni della retorica anti-russa e anti-siriana. Venerdì alle Nazioni Unite, ad esempio, il Consiglio di Sicurezza terrà una riunione dedicata alla situazione di Idlib ed è scontato attendersi nuovi pesanti attacchi contro Damasco.

A parte il futuro della Siria, la battaglia di Idlib e i suoi preparativi sono di estrema importanza perché sembrano segnare anche a livello formale l’abbandono, in atto da qualche tempo, della quasi ventennale “guerra al terrore” da parte degli Stati Uniti come obiettivo cardine della loro strategia planetaria a favore dello scontro con entità statali che minacciano la supremazia di Washington, a cominciare da Russia e Cina.

 

Significativamente, la fine della guerra alla minaccia terroristica come priorità strategica americana giunge con una mobilitazione per la difesa esplicita di organizzazioni fondamentaliste, inclusa la propaggine di al-Qaeda in Siria, su cui Washington aveva peraltro puntato e investito fin dall’inizio per rovesciare il regime di Damasco assieme ai propri alleati in Europa e nel mondo arabo.

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