Le elezioni di metà mandato del prossimo 6 novembre, per il rinnovo del Congresso federale degli Stati Uniti, sono già diventate le più dispendiose della storia americana per un anno senza le presidenziali. La somma di denaro complessiva spesa nelle campagne elettorali potrebbe alla fine aggirarsi attorno ai 6 miliardi di dollari. Oltre a ciò, l’aspetto finanziario più significativo di questa tornata è la capacità del Partito Democratico di raccogliere fondi in quantità nettamente superiore rispetto a quello Repubblicano.

 

I dati ufficiali finora a disposizione documentano l’attività di “fundraising” solo fino al 30 settembre, quando già superava i 5 miliardi di dollari. La cifra complessiva è riferita non solo alle competizioni per tutti i 435 seggi della Camera dei Rappresentanti e i 35 su 100 in palio al Senato, ma anche a quelle per la carica di governatore in 36 stati, per le assemblee statali e referendum vari.

 

 

L’impennata dei contributi elettorali è impressionante se si paragonano le cifre di quest’anno a quelle totali delle precedenti votazioni. Nelle elezioni di metà mandato del 2014, ad esempio, era stata di poco inferiore ai 3,7 miliardi, mentre nel 2002 aveva superato per la prima volta la soglia dei due miliardi.

 

La capacità dei partiti che presentano candidati alle elezioni americane di ottenere denaro in queste quantità non è comunque sintomo di una mobilitazione di massa tra gli elettori, tanto che le rilevazioni di opinione prospettano ancora una volta un’affluenza su scala nazionale ben al di sotto del 50%. Se è vero che una frazione consistente delle somme raccolte, soprattutto quelle destinate al Partito Democratico, viene da singole donazioni di modesta entità, la maggior parte di esse è composta da assegni a parecchi zeri staccati da ricchi e ricchissimi finanziatori.

 

I soli candidati democratici alle elezioni di novembre hanno comunque incassato finora 205 milioni di dollari tramite donazione inferiori ai 200 dollari ciascuna, vale a dire tre volte di più rispetto ai repubblicani. Se a ciò si aggiunge il denaro raccolto dalle organizzazioni che fanno campagna elettorale per il partito di opposizione a Washington, la cifra sale a 385 milioni, provenienti da 8,2 milioni di singoli donatori.

 

Anche se destinate a finire nel vicolo cieco del Partito Democratico, queste cifre sono alimentate in larga misura dall’ostilità diffusa per l’amministrazione Trump e le sue politiche ultra-reazionarie. Tuttavia, il lievitare dei finanziamenti a favore dei democratici e il divario tra il denaro a disposizione di questi ultimi rispetto ai repubblicani sono dovuti in primo luogo al cambiato atteggiamento dei grandi interessi economici americani.

 

I finanziatori più importanti delle campagne elettorali, da ricercare ai vertici delle grandi corporation e delle banche di Wall Street, stanno cioè dirottando in maggioranza il proprio denaro sui candidati democratici. Questo spostamento non ha ovviamente a che fare con riserve di natura democratica nei confronti di Trump, bensì con le preoccupazioni per le conseguenti destabilizzanti per il capitalismo americano dell’agenda nazionalista e protezionista della Casa Bianca, così come con determinati orientamenti in politica estera.

 

Una recente analisi dei flussi di denaro condotta dal New York Times ha mostrato come il 60% del gap finanziario tra i democratici e i repubblicani sia dovuto alle donazioni di grandi finanziatori. Il primo di questi è l’ex sindaco di New York, Michael Bloomberg, il quale ha contribuito con 80 milioni di dollari delle sue fortune alla campagna del Partito Democratico per la Camera e, più recentemente, con altri 20 milioni per il Senato.

 

L’importanza sempre crescente di disporre di somme ingentissime per presentarsi alle elezioni negli Stati Uniti è uno dei sintomi del gravissimo deterioramento del clima democratico in questo paese. Senza la possibilità di raccogliere milioni o decine di milioni di dollari, oppure senza un vasto patrimonio personale cui attingere, è ormai praticamente impossibile mettere in piedi una campagna elettorale con una minima chance di successo.

 

Lo spostamento in atto tra la classe dirigente e il business americano è in ogni caso chiarissimo dagli equilibri finanziari dei candidati alla Camera dei Rappresentanti di Washington. Qui i democratici sono favoriti per la riconquista della maggioranza e hanno bisogno di conquistare almeno 23 seggi attualmente occupati dai repubblicani, oltre a conservare tutti quelli già in loro possesso.

 

Solitamente, i deputati o “representatives” in carica, così come i senatori o i governatori, hanno maggiore potere nel raccogliere fondi, vista la loro notorietà e i legami consolidati col partito e la rete di finanziatori, ma in questa occasione sono spesso gli sfidanti democratici  a disporre di maggiori fondi. Su 115 collegi elettorali dove si decideranno probabilmente le sorti della Camera, 71 sono caratterizzati da candidati democratici con più denaro a disposizione rispetto a quelli repubblicani, nonostante in decine di casi questi ultimi abbiano il teorico vantaggio di essere i detentori dei seggi.

 

Esaminando le competizioni elettorali con il maggiore richiamo mediatico, questa tornata elettorale offre sfide tra le più costose della storia americana. Ad esempio, quella per un seggio al Senato per la Florida ha già infranto tutti i record. A risultare determinante è l’infusione di denaro proveniente dalla ricchezza personale di uno dei due candidati, l’imprenditore e speculatore repubblicano Rick Scott, governatore uscente dello stato. Scott e il suo sfidante, il senatore democratico in carica, Bill Nelson, fino al 30 settembre hanno raccolto complessivamente ben 113 milioni di dollari.

 

I candidati democratici al Senato meglio finanziati sono però altri. Il primo è il deputato del Texas Beto O’Rourke, che sfiderà il senatore repubblicano in carica Ted Cruz, e la seconda è la senatrice Claire McCaskill del Missouri, con quasi 29 milioni di dollari. O’Rourke ha in mano 61,7 milioni, anche se, nonostante una campagna particolarmente aggressiva e un notevole vantaggio finanziario, sembra essere inchiodato dai sondaggi a un margine di ritardo incolmabile dal suo rivale.

 

Al Senato, il Partito Democratico nutre sempre meno speranze di ribaltare gli equilibri e togliere il risicato margine che garantisce la maggioranza ai repubblicani. Malgrado i democratici occupino 26 dei 35 seggi in palio a novembre, dieci di questi sono in stati vinti da Trump nelle presidenziali del 2016 e che, quindi, vedono spesso favoriti i candidati repubblicani.

 

Anche tra le competizioni di solito relativamente meno dispendiose, come quelle per la Camera, le cifre in circolazione nel 2018 hanno fatto segnare sensibili aumenti. In maniera insolita, in vari distretti elettorali i candidati in corsa hanno superato i 20 milioni di dollari raccolti, mentre in molti altri casi la soglia già elevata dei 10 milioni è stata sfondata agevolmente.

 

Anche la corsa alla guida dei singoli stati americani non è immune da battaglie a suon di dollari. La più costosa è nettamente quella per il posto di governatore dell’Illinois. In questo stato, lo sfidante democratico è il miliardario erede della catena alberghiera Hyatt, nonché fratello di una ex esponente dell’amministrazione Obama, J. B. Pritzker, il quale ha già speso in campagna elettorale oltre 100 milioni di dollari, contro gli 82 del governatore in carica, il repubblicano Bruce Rauner.

Gli americani che intendono finanziare le campagne elettorali di qualsiasi candidato o partito hanno due modalità per poterlo fare. La prima, sempre meno importante, è tramite un versamento diretto al candidato o al partito stesso, ma in questo modo la legge prevede un tetto di poche migliaia di dollari per ogni ciclo elettorale.

 

La seconda, sulla quale si concentrano ormai i grandi donatori, con contributi da destinare a gruppi e organizzazioni formalmente non collegati ai candidati o ai partiti che sostengono. In questo modo, grazie a una storica sentenza della Corte Suprema di qualche anno fa, individui privati e aziende possono contribuire alle campagne elettorali con finanziamenti di fatto illimitati.

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