Con un’azione attentamente coordinata, questa settimana l’amministrazione Trump e la stampa ufficiale americana hanno probabilmente segnato l’inizio della fine del sanguinoso conflitto che da oltre tre anni sta devastando lo Yemen. La mossa decisa a Washington dovrebbe tradursi in un progressivo disimpegno dei regimi di Arabia Saudita ed Emirati Arabi, portando un qualche sollievo a una popolazione letteralmente allo stremo.

 

La più che tardiva decisione americana non rappresenta però un’improvvisa presa di coscienza del grado di criminalità di questa guerra. Al contrario, essa rientra quasi certamente in un accordo stipulato tra Washington e Riyadh per archiviare lo scottante caso del brutale assassinio del giornalista saudita, Jamal Khashoggi, nel consolato del suo paese a Istanbul il 2 ottobre scorso.

 

Proprio mentre la vicenda Khashoggi è virtualmente sparita dalle prime pagine dei giornali occidentali, due rappresentanti di spicco del governo USA hanno in sostanza ordinato martedì alle case regnanti di Arabia Saudita ed Emirati Arabi di prendere provvedimenti per sospendere l’aggressione militare contro lo Yemen.

Il segretario di Stato, Mike Pompeo, ha affermato in maniera perentoria che “questo è il momento di cessare le ostilità”. L’ex direttore della CIA ha dapprima chiesto lo stop al lancio dei missili dei ribelli Houthi yemeniti contro Arabia ed Emirati, per poi avvertire questi due paesi della necessità di mettere fine a loro volta ai “bombardamenti aerei su tutte le aree popolate dello Yemen”.

 

Alla fine dei combattimenti, ha aggiunto Pompeo, dovrà seguire un rilancio dei colloqui di pace in stallo. L’inviato speciale delle Nazioni Unite per la crisi nello Yemen, Martin Griffith, dovrebbe presiedere già entro la fine di novembre alla “implementazione di misure volte a creare un clima di fiducia reciproca per affrontare le cause del conflitto”.

 

Ancora più esplicito è stato poi il segretario alla Difesa, James Mattis. Sempre martedì, l’ex generale ha parlato nel corso di un convegno a Washington, sollecitando “uno sforzo per la pace… non in un futuro indefinito”, bensì “entro i prossimi trenta giorni”. Ricalcando le parole di Pompeo, il numero uno del Pentagono ha chiarito il desiderio del governo americano di “vedere tutte le parti coinvolte nel conflitto sedersi attorno a un tavolo” e concordare un cessate il fuoco “basato sul ritiro [delle forze armate] dalle frontiere” e “sulla cessazione dei bombardamenti”. Secondo Mattis, infine, sia il regime saudita che quello degli Emirati sarebbero “pronti” a negoziare una soluzione pacifica alla crisi.

 

Alle prese di posizione di Pompeo e Mattis hanno fatto eco altre dichiarazioni simili a livello internazionale. Ad esempio, il ministro della Difesa francese, Florence Parly, in un intervento radiofonico ha anch’essa parlato di una situazione “senza via d’uscita” nello Yemen che, perciò, richiede “prioritariamente” la fine della guerra.

 

L’eventuale sospensione delle operazioni militari nello Yemen della “coalizione” guidata da Riyadh e Abu Dhabi sarebbe evidentemente di importanza vitale, vista la situazione a dir poco disperata nel paese arabo. Tuttavia, l’illuminazione relativamente inaspettata di Mattis e Pompeo è un’ulteriore dimostrazione dell’esemplare ipocrisia del governo americano.

 

In primo luogo, il sostegno degli Stati Uniti allo sforzo bellico di Arabia Saudita ed Emirati Arabi è stato e continua a essere decisivo. Oltre a garantire copertura politica per i crimini commessi dalle due monarchie assolute nello Yemen, Washington assicura la fornitura costante delle armi necessarie a condurre la guerra, così come si occupa dei rifornimenti dei jet impegnati nei bombardamenti e della localizzazione dei bersagli da colpire.

 

In altre parole, se la Casa Bianca avesse voluto interrompere per scrupoli umanitari la strage in corso da più di tre anni nello Yemen avrebbe potuto farlo in qualsiasi momento. Invece, nel rispondere a una richiesta del Congresso di Washington, Pompeo ancora nel mese di settembre ne aveva decretato la prosecuzione, certificando l’impegno di Riyadh e Abu Dhabi per contenere il numero di vittime civili.

 

Le rassicurazioni di Pompeo, necessarie per legge a evitare lo stop alla vendita di armi all’Arabia Saudita, erano arrivate poche settimane dopo uno dei più gravi tra i numerosi massacri di civili ad opera delle bombe saudite. Ad agosto, infatti, un attacco aereo aveva colpito uno scuolabus nel nord dello Yemen massacrando più di 40 bambini.

 

Il cambiamento di rotta americano risponde in ogni caso a crescenti malumori in tutto l’Occidente per una guerra che, nelle occasioni in cui riceve l’attenzione della stampa, suscita giustamente orrore tra l’opinione pubblica internazionale. Un orrore che rischia di offuscare ancora di più l’immagine di regimi ultra-autoritari come quelli di Riyadh e Abu Dhabi, tuttora fondamentali per gli interessi strategici mediorientali degli Stati Uniti e dei loro alleati.

 

L’occasione per arrivare a una de-escalation del conflitto nello Yemen sembra essere forse arrivata dal pasticcio della vicenda Khashoggi. Con l’emergere delle responsabilità saudite nell’assassinio del giornalista in auto-esilio negli Stati Uniti, le pressioni sono aumentate su colui che viene quasi universalmente considerato come il mandante dell’operazione a Istanbul, vale a dire il giovane erede al trono Mohammed bin Salman (MBS).

 

Di conseguenza, in molti anche negli ambienti di potere americani hanno chiesto esplicitamente la rimozione di MBS dalla linea di successione all’attuale sovrano, il padre Salman. Gli attacchi al principe ereditario sono motivati ancora una volta non dalle conseguenze disastrose del suo comportamento e delle sue politiche, responsabili anche dell’aggressione militare contro lo Yemen, quanto dai timori che esse finiscano per screditare irreparabilmente il regime saudita, soprattutto dopo la vicenda Khashoggi.

 

MBS gode tuttavia dell’appoggio del presidente Trump e della sua cerchia di consiglieri, i quali hanno investito enormemente proprio sul giovane membro della casa reale saudita per promuovere una serie di iniziative nella regione mediorientale e che hanno a che fare, tra l’altro, con l’Iran, la Siria, Israele e la questione palestinese.

 

Nel tentativo di resistere alle pressioni domestiche per scaricare MBS, la Casa Bianca potrebbe quindi avere raggiunto un’intesa con i vertici del regno saudita, all’interno del quale lo stesso erede al trono si è fatto non pochi nemici. In definitiva, un aspetto dell’accordo, che confermerebbe la fiducia del governo USA a Mohammed bin Salman, potrebbe includere un passo indietro di Riyadh nello Yemen.

 

In questo modo, si cercherebbe di spegnere le critiche internazionali su un conflitto che rappresenta una distrazione dall’offensiva anti-iraniana promossa da Washington e si è da tempo trasformato nella più grave crisi umanitaria in corso nel pianeta. L’accordo, che coinvolge con ogni probabilità anche la Turchia, intende sostanzialmente insabbiare il caso Khashoggi o, quanto meno, sottrarre MBS dalle sue probabili responsabilità e si estende quasi certamente ad altri ambiti, come la situazione in Siria o il boicottaggio del Qatar da parte di Arabia Saudita ed Emirati Arabi.

 

L’esistenza effettiva di un’intesa di questo genere sarà confermata o smentita solo dagli eventi delle prossime settimane. Intanto, i segnali provenienti dallo Yemen non lasciano intravedere alcun miglioramento della situazione sul campo. Martedì è circolata infatti la notizia delle intenzioni del regime saudita di inviare altri diecimila uomini che dovrebbero partecipare a un nuovo assalto alla città portuale di Hodeidah, forse proprio per stringere i tempi in previsione della tregua ordinata da Washington.

 

Questa località è di importanza strategica cruciale ed è già stata al centro di un’offensiva per strapparla al controllo degli Houthi. Le mire saudite su Hodeidah erano già state condannate duramente dall’ONU e dalle organizzazioni umanitarie, poiché da qui entra la gran parte delle importazioni di beni di primissima necessità destinati a milioni di yemeniti.

 

I nuovi scenari nel più povero dei paesi arabi stanno infine prendendo forma in un frangente in cui la situazione dei civili continua a precipitare. Recentemente, l’ONU ha alzato a 14 milioni il numero degli yemeniti a rischio carestia, mentre un’indagine indipendente ha stimato che i morti tra i civili nel conflitto a partire dal 2015 non sarebbero diecimila, come indicano i dati ufficiali, ma superano ormai di gran lunga le 50 mila unità.

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