Alla vigilia di una delicata riunione dell’OPEC, questa settimana il piccolo emirato del Qatar ha fatto sapere che, a partire dal primo gennaio prossimo, abbandonerà l’ Organizzazione dei paesi esportatori di petrolio, di cui fa parte dal 1961. La decisione è apparentemente da collegare a ragioni di ordine pratico, anche se è inevitabile che si inserisca nel quadro delle profonde divisioni esplose tra le monarchie sunnite del Golfo Persico a partire dal boicottaggio dello stesso Qatar, inaugurato nell’estate del 2017 dall’Arabia Saudita.

 

L’imminente addio all’OPEC è stato annunciato lunedì dal ministro dell’Energia, Saad Sherida Al-Kaabi, secondo il quale il suo paese prevede di concentrarsi nel prossimo futuro sullo sviluppo della produzione di gas liquefatto (LNG) piuttosto che sull’estrazione di greggio.

 

 

Il Qatar è in effetti solo l’undicesimo produttore di petrolio all’interno dell’OPEC, mentre è uno dei principali esportatori di gas liquefatto del pianeta, anzi il primo in assoluto secondo i dati del 2017. Le riserve di gas del Qatar sono inferiori solo a quelle di Iran e Russia e il piano del governo, delineato dallo stesso ministro Al-Kaabi, è di aumentare la produzione nei prossimi anni dall’equivalente di 4,8 milioni di barili di petrolio a 6,5 milioni.

 

Come hanno fatto notare molti osservatori, investire in maniera prioritaria sulla produzione di gas non comporta necessariamente un allontanamento dal principale cartello del petrolio. Anzi, secondo altri analisti, un posto al tavolo dell’OPEC dava al Qatar un peso decisionale ben superiore alle proprie potenzialità petrolifere, politiche e militari, così come la possibilità di disporre di un canale privilegiato con i centri internazionali del potere.

 

La rottura dello scorso anno con Riyadh, tuttavia, ha determinato una certa emarginazione dei rappresentanti del Qatar in seno all’OPEC, a cui è stato riservato un trattamento simile a quelli iraniani. Una delle accuse o, per meglio dire, la principale rivolta dal regime saudita a quello di Doha era appunto di essere troppo vicino alla Repubblica Islamica, oltre che di appoggiare il movimento dei Fratelli Musulmani, nemico giurato della monarchia wahhabita. Da allora, il Qatar ha intensificato i legami sia con l’Iran sia soprattutto con la Turchia, ritrovandosi inoltre su fronti opposti a quelli dell’Arabia Saudita e degli Emirati Arabi nei vari scenari regionali, dalla Siria all’Iraq alla Somalia.

 

Le rivalità e, persino, le fratture all’interno dell’OPEC sono state ad ogni modo tutt’altro che rare nel corso dei decenni. I rappresentanti dei paesi membri avevano continuato a sedersi allo stesso tavolo nella sede di Vienna anche in presenza di crisi molto gravi, come ad esempio durante la guerra tra Iran e Iraq negli anni Ottanta o l’occupazione irachena del Kuwait e la prima guerra del Golfo.

 

Le divisioni politiche e strategiche sono state quasi sempre superate o, quanto meno, messe in secondo piano per la promozione degli interessi economici ed energetici dei membri dell’organizzazione. Per questo motivo, la decisione del Qatar di abbandonare l’OPEC non può non essere dettata da considerazioni di ordine simbolico e, ancor più, strategico.

 

In sostanza, voltando le spalle a un organismo dominato dai rivali sauditi, Doha intende avvertire non solo che il boicottaggio messo in atto nei suoi confronti non ha alcun peso sulle proprie scelte strategiche, ma che, anzi, queste ultime continueranno a essere fatte in direzione opposta a quella teoricamente imposta da Riyadh. A questo proposito, è altamente significativo e per nulla casuale che l’annuncio di lunedì segua il rincorrersi delle notizie sui piani del governo del Qatar di collaborare con l’Iran nell’ulteriore sviluppo del giacimento marittimo di gas che si estende all’interno dei confini di entrambi i paesi.

 

Su un piano più ampio, è probabile che il Qatar veda l’OPEC e la permanenza in esso come uno strumento nelle mani dei reali sauditi per controllare le proprie decisioni strategiche ed economiche. A questo aspetto della rivalità tra Doha e Riyadh va forse riferito il commento, espresso su Twitter, dell’ex ministro degli Esteri del Qatar e membro della famiglia reale, Hamad bin Jassim bin Jaber Al Thani, il quale ha definito “saggia” la scelta di uscire dall’OPEC, visto che l’organizzazione sarebbe ormai utilizzata “per danneggiare i nostri interessi nazionali”.

 

Leggendo l’addio all’OPEC del Qatar in questa prospettiva, è evidente che le implicazioni per gli equilibri mediorientali appaiono tutt’altro che trascurabili. In primo luogo, la frattura interna ai paesi del Golfo rimanda ulteriormente il possibile raggiungimento di quell’unità del fronte sunnita che Riyadh e Washington stanno cercando di promuovere in funzione anti-iraniana.

 

Quella sorta di “NATO del Medio Oriente” propagandata dall’amministrazione Trump per contenere l’espansione dell’influenza di Teheran ha così sempre meno possibilità di vedere la luce, visto anche che dovrebbe fondarsi sulla struttura di un Consiglio di Cooperazione del Golfo Persico (GCC), già agonizzante proprio a causa della vicenda relativa al Qatar.

 

Doha, inoltre, continua a vantare una partnership sempre più solida con la Turchia di Erdogan, tanto che il governo di Ankara ha potuto installare una propria base militare sul territorio del Qatar, allo scopo di scoraggiare una possibile invasione saudita. Alla luce dell’evoluzione degli orientamenti strategici turchi, sempre più rivolti verso est e la Russia, nonché dei crescenti contrasti con Washington e la NATO, risulta chiara anche la scelta di campo del Qatar, quanto meno in prospettiva futura.

 

Queste dinamiche sono state sostanzialmente confermate da alcuni analisti citati nei giorni scorsi dai media internazionali. Una ricercatrice del Council on Foreign Relations americano ha affermato ad esempio che “la decisione del Qatar [di lasciare l’OPEC] conferma come il boicottaggio saudita abbia reso urgente il lento distacco di Doha dalla sfera d’influenza di Riyadh”. In realtà, gli sforzi del Qatar di “ridurre la propria esposizione alla politica petrolifera saudita” risalgono già agli anni Novanta del secolo scorso, ma, alla luce dell’aggressione di Riyadh, “l’indipendenza dell’industria del gas del Qatar appare oggi una necessità ancora più pressante”.

 

Per quanto scarsamente influente sulla produzione globale di petrolio, la scelta del Qatar potrebbe avere tuttavia un qualche effetto anche sull’OPEC. In molti hanno fatto notare come la decisione degli emiri di questo paese si sovrapponga in qualche modo alla perdita di influenza dello stesso cartello del petrolio. Le decisioni interne all’OPEC appaiono infatti sempre più subordinate a quelle concordate in altre sedi e, negli ultimi tempi, soprattutto tra Arabia Saudita e Russia in un formato definito piuttosto impropriamente “OPEC+”. A ciò si deve aggiungere poi il ruolo determinante del petrolio americano e canadese, confermato tra l’altro dal rialzo a inizio settimana delle quotazioni del greggio in seguito all’annuncio di un taglio della produzione a partire da gennaio nello stato dell’Alberta.

 

In un quadro simile, i produttori minori e relativamente minori di greggio dell’OPEC rischiano di vedersi esclusi da processi decisionali che li interessano direttamente e, sulla scia dell’esempio del Qatar, potrebbero diventare presto essi stessi promotori delle forze centrifughe all’interno dell’organizzazione.

Di particolare interesse risulterà così il vertice dell’OPEC che si terrà questa settimana a Vienna e che dovrebbe ratificare una riduzione della produzione di petrolio per interrompere il precipitare delle quotazioni delle ultime settimane.

 

Oltre agli effetti delle notizie provenienti da Doha, da valutare saranno anche gli umori dei paesi membri in merito a una decisione a quanto pare già presa da Putin e dall’erede al trono saudita Mohammed bin Salman nel corso del recente G20 in Argentina, e che è stata dettata non tanto dagli interessi dell’OPEC nel suo insieme, quanto, in larga misura, proprio da quelli di Mosca e di Ryadh.

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