Con un discorso relativamente informale tenuto il primo giorno dell’anno, il leader nordcoreano Kim Jong-un ha riportato la trattativa sulla possibile denuclearizzazione del suo paese al centro del dibattito internazionale e, in particolare, di quello americano. Quasi tutti i giornali e i commentatori della stampa ufficiale hanno interpretato l’intervento come una minaccia sul negoziato in atto, da condurre cioè secondo le regole stabilite dal regime per non fare svanire nel nulla gli sforzi di questi mesi e innescare una nuova corsa agli armamenti nella penisola di Corea.

 

 

Le parole di Kim sono state in realtà un ulteriore segnale della disponibilità nordcoreana al dialogo e alla stabilizzazione del nord-est asiatico, assieme a un invito all’amministrazione Trump a intraprendere azioni concrete che sblocchino lo stallo dei colloqui di pace. In ultima analisi, la Corea del Nord resta cioè aperta al compromesso con Washington, a patto che l’amministrazione Trump decida finalmente di rispondere alle iniziative già adottate da Pyongyang con concessioni che generino fiducia reciproca e diano slancio alle trattative.

 

Kim ha infatti ribadito l’intenzione del suo paese di fare a meno delle armi nucleari, mentre sull’agenda del leader nordcoreano resta sempre anche la possibilità di partecipare a un secondo faccia a faccia con il presidente americano, dopo quello di Singapore nel giugno del 2018.

 

L’avvertimento di Kim è stato tuttavia chiaro, vale a dire, “se gli Stati Uniti non manterranno le loro promesse e sottovaluteranno la pazienza del nostro popolo”, continuando a imporre “sanzioni ed esercitando pressioni su di noi, non avremo altra scelta che cercare una nuova strada per proteggere l’indipendenza e gli interessi del paese e la pace nella penisola di Corea”.

 

Un’analisi del New York Times ha subito rilevato come il discorso di Kim abbia riportato Trump alla stessa posizione di partenza del negoziato con Pyongyang, visto che nell’apparizione televisiva di inizio anno sono riemerse alcune delle richieste nordcoreane precedenti il processo di distensione in atto. Esse sarebbero lo stop a tutte le esercitazioni militari tra USA e Corea del Sud, l’allentamento delle sanzioni, la rinuncia al potenziale nucleare americano nella regione in grado di colpire la Corea del Nord e l’accordo su un vero e proprio trattato di pace che metta fine ufficialmente alla guerra del 1950-53.

 

In molti a Washington hanno in sostanza interpretato la presa di posizione di Kim come una conferma della scarsa affidabilità nordcoreana e la prova ancora una volta delle intenzioni del regime a conservare il proprio arsenale bellico, rimandando al mittente le offerte di pace.

 

Al contrario, Kim ha inteso sollecitare l’amministrazione repubblicana a sbloccare le trattative, il cui stato odierno dipende appunto non dalla rigidità di Pyongyang bensì dalle indecisioni e dalle divisioni all’interno della classe dirigente degli Stati Uniti. Nel quadro emerso dal vertice di Singapore, quelle di Kim sono d’altronde richieste legittime di concessioni da parte americana che riconoscano un cambiato atteggiamento in Corea del Nord e, ancor più, una serie di passi fatti dal regime che, per quanto minimizzati dagli ambienti ufficiali negli USA, appaiono innegabili e tutt’altro che insignificanti se si pensa alla situazione della penisola ancora sul finire del 2017.

 

Dal congelamento dei test nucleari allo smantellamento di un noto sito missilistico, dai tre summit tra Kim e il presidente sudcoreano Moon Jae-in agli ormai svariati ambiti di collaborazione con Seoul, fino allo stesso storico incontro con Trump dello scorso giugno, il 2018 è stato caratterizzato da numerosi importanti segnali da parte nordcoreana. I motivi di attrito e gli ostacoli sulla strada del negoziato con Washington sono perciò da collegare all’atteggiamento degli Stati Uniti, la cui posizione ufficiale sembra essere ancora quella della richiesta a Pyongyang di rinuncia preventiva al proprio arsenale nucleare o, quanto meno, di una dichiarazione dettagliata di tutti gli ordini a disposizione e dei siti in cui essi sono ospitati.

 

 

Nell’ottica del regime di Kim, simili imposizioni appaiono ovviamente inaccettabili. Il potenziale nucleare ottenuto in questi anni è infatti l’unico deterrente in grado di impedire un’aggressione americana, tanto più in considerazione di esempi come Iraq o Libia. Il respingere simili imposizioni non comporta un atteggiamento di chiusura o un atteggiamento di doppiezza nei confronti del processo diplomatico. Infatti, nello stesso discorso del primo di gennaio, Kim ha prospettato sviluppi “rapidi” ed “eccellenti” nelle relazioni bilaterali, con l’implementazione di “misure importanti e innovative” nel caso “gli Stati Uniti dovessero adottare misure sincere in risposta ai nostri sforzi” già dimostrati concretamente.

 

Kim ha in sostanza passato ancora una volta la palla al governo di Washington, da cui si attende il riconoscimento dei passi avanti di questi mesi e un segnale tangibile della buona fede americana che favorisca un’accelerazione delle trattative. Che sia la posizione americana a essere di ostacolo a un qualche progresso è dimostrato anche dal sostanziale appoggio espresso alle istanze nordcoreane non solo da Cina e Russia, ma anche dal governo di Seoul.

 

Le incertezze degli Stati Uniti appaiono a prima vista singolari, visto che lo stesso presidente Trump continua a ostentare un certo grado di apprezzamento per le posizioni di Kim Jong-un. Anche dopo il discorso di inizio anno di quest’ultimo, il presidente USA è stato uno dei pochi a Washington a leggere con ottimismo le parole provenienti da Pyongyang. Questa interpretazione di Trump non è solo da ricondurre all’ovvia ragione di difendere le proprie scelte di politica estera e la promessa di mettere fine alla minaccia nucleare della Nordcorea, ma offre anche una chiave di lettura degli stenti che sta incontrando il processo di pace con Pyongyang.

 

Come su altri fronti internazionali, Trump si trova anche sulla questione coreana a scontrarsi con una parte della classe politica e dell’apparato militare e della sicurezza nazionale USA che spinge per una soluzione difficilmente accettabile per il regime di Kim. In altre parole, la diplomazia americana sembra paralizzata e incapace di uscire da una logica fatta di diktat e pressioni a oltranza fino a estorcere concessioni unilaterali perché continua a vedere nel processo in corso un modo per scardinare gli equilibri strategici nella penisola di Corea e, in sostanza, sottrarre Pyongyang dalla sfera di influenza cinese.

 

L’obiettivo resta quello di ottenere un totale allineamento ai propri interessi da parte di un Kim privato della propria macchina da guerra e per questo esposto alla minaccia di distruzione del suo regime in caso di un mancato sganciamento definitivo da Pechino, così come da Mosca. In questo quadro, è evidente che qualsiasi concessione alla Corea del Nord nella fase attuale rappresenterebbe un incoraggiamento a proseguire un negoziato franco e onesto, cosa che gli Stati Uniti non sembrano desiderare.

Da parte nordcoreana, peraltro, il gioco americano è stato letto da tempo e, a questo proposito, proprio un passo del discorso di questa settimana di Kim, a cui si è accennato in precedenza, è apparso come un messaggio diretto alla Casa Bianca. A un certo punto, il leader nordcoreano ha avvertito che, in caso gli Stati Uniti restassero fermi sulle loro posizioni senza scendere a compromessi, Pyongyang potrebbe “esplorare nuove vie per salvaguardare la nostra sovranità e i nostri interessi”, non per rimettere in moto le spinte militariste, quanto per “favorire la pace e la stabilità nella penisola di Corea”.

Come hanno spiegato alcuni commentatori, in queste parole è possibile intravedere una sorta di ultimatum agli USA, anche se privo delle consuete implicazioni belliche. La Corea del Nord è cioè totalmente aperta al dialogo e alla collaborazione sul fronte strategico così come su quello economico, ma se Washington non dovesse allentare le pressioni sul regime, quest’ultimo sarebbe pronto a “esplorare” soluzioni utili ai propri interessi e ai nuovi piani di sviluppo, optando con ogni probabilità per un processo di integrazione con partner più affidabili e meglio disposti a garantire l’avanzamento del paese, come Cina, Russia e, addirittura, Corea del Sud.

Agli Stati Uniti e al presidente Trump spetta dunque la scelta se dare seguito ai progressi degli ultimi mesi o tornare allo scontro, precipitando il nord-est asiatico in una nuova crisi potenzialmente rovinosa.

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