Lo stallo politico negli Stati Uniti sul bilancio federale e il finanziamento del muro anti-migranti rischia seriamente di trasformarsi in una crisi costituzionale ancora più grave, nel caso il presidente Trump dovesse dare seguito alla minaccia di dichiarare lo stato di emergenza nel paese per sbloccare i fondi da destinare alla costruzione di una barriera al confine con il Messico.

 

Questa opzione era stata confermata da Trump in un intervento televisivo in prima serata martedì e poi ribadita durante una visita in Texas mercoledì. L’ipotesi era circolata in precedenza nei corridoi della Casa Bianca e aveva incontrato comprensibilmente l’opposizione pressoché totale dei nemici del presidente, ma anche il profondo scetticismo di molti nello stesso Partito Repubblicano.

 

 

D’altra parte, l’idea di Trump è palesemente incostituzionale, dal momento che l’articolo 1 della Carta americana assegna in maniera inequivocabile solo al Congresso, e non al presidente, il potere di stanziare fondi. Quest’ultimo può solo in casi molto limitati e, soprattutto, in presenza di reali emergenze indirizzare altrove fondi già destinati a capitoli di spesa definiti dal Congresso.

 

Proprio su questa eccezione si baserebbe il presupposto pseudo-legale della possibile iniziativa di Trump, il quale intende dichiarare lo stato di emergenza a causa dell’afflusso di migranti negli Stati Uniti, in modo da utilizzare poco meno di sei miliardi di dollari del bilancio del dipartimento della Difesa per far costruire ai militari un muro di confine lungo quasi duemila miglia.

 

Questa manovra si renderebbe necessaria a causa dell’impossibilità di raggiungere un accordo tra Congresso e Casa Bianca sulla riapertura di uffici e agenzie federali, chiusi ormai da una ventina di giorni. Trump, appunto, chiede il denaro necessario a costruire il muro in cambio dell’approvazione del bilancio federale, mentre i leader del Partito Democratico si rifiutano di concedere quanto richiesto dal presidente e intendono approvare uno stanziamento di fondi che riapra il governo, separando da esso la questione della lotta all’immigrazione.

 

In una situazione di muro contro muro, sia pure più apparente che sostanziale, viso l’interesse anche dei democratici a implementare iniziative per la “sicurezza” delle frontiere, giornali e commentatori americani hanno iniziato a vedere la dichiarazione dello stato di emergenza non più o non solo come un nuovo grave attacco alla democrazia e alla Costituzione americana, ma anche come una, se non l’unica, via d’uscita dall’impasse.

 

Il ragionamento sarebbe in sostanza il seguente. Proclamando lo stato di emergenza, Trump potrebbe ordinare la costruzione del muro senza l’autorizzazione del Congresso. Ciò innescherebbe immediatamente una valanga di azioni legali che, con ogni probabilità, ritarderebbero come minimo l’inizio dei lavori anche per anni.

Tuttavia, la decisione permetterebbe al presidente di presentarsi davanti alla sua base elettorale di estrema destra sostenendo di avere fatto ogni cosa in suo potere per costruire il muro, com’è noto tra le principali promesse della sua campagna del 2016. In parallelo, la questione verrebbe stralciata dalla trattativa sul bilancio, in modo da consentire un accordo bipartisan al Congresso e riaprire gli uffici governativi chiusi dal 21 dicembre scorso.

 

Tra i primi ad analizzare e, in larga misura, approvare questo percorso di uscita dalla crisi politica a Washington sono stati due dei principali giornali di riferimento per gli ambienti di potere americani “liberal” e conservatori, cioè rispettivamente New York Times e Wall Street Journal. Entrambi hanno in effetti sottolineato i rischi costituzionali insiti in una soluzione di questo genere.

 

Il Times l’ha definita una “violazione straordinaria delle norme costituzionali” che “creerebbe un precedente nelle mani di tutti i presidenti che non saranno in grado di ottenere [dal Congresso] i fondi necessari a finanziare i propri progetti”. Allo stesso tempo, però, il giornale definisce l’eventuale stato di emergenza dichiarato da Trump per la costruzione del muro “l’unica via d’uscita dalla crisi dello ‘shutdown’ politicamente percorribile”.

 

Mettendo da parte la retorica della Casa Bianca e dei leader del Congresso di queste settimane, lo scontro sul muro e il bilancio federale sembra dunque avviato verso un possibile epilogo che, nella peggiore delle ipotesi, potrebbe aggiungere un altro mattone all’edificazione di un sistema anti-democratico con poteri semi-assoluti assegnati all’esecutivo. Il tutto con la benedizione più o meno esplicita e convinta dell’establishment politico e di media e commentatori ufficiali.

 

Che Trump possa optare per questa decisione appare sempre più probabile, anche per via delle pressioni dovute ai crescenti malumori all’interno dello stesso Partito Repubblicano sul prolungarsi dello “shutdown”. Nonostante l’appello del presidente all’unità del partito, mercoledì otto deputati repubblicani hanno ad esempio votato a favore di un provvedimento promosso dalla maggioranza democratica alla Camera per rimettere in moto il dipartimento del Tesoro, anche senza fondi per il muro, in vista dell’inizio della presentazione delle dichiarazioni dei redditi da parte dei contribuenti americani.

 

Lo scavalcamento del Congresso da parte della Casa Bianca nella gestione dei “poteri della borsa” comporterebbe ovviamente numerosi ricorsi di fronte ai tribunali federali degli Stati Uniti. In molti hanno pronosticato una più che probabile bocciatura dell’eventuale mossa di Trump e, di conseguenza, la mancata costruzione del muro di separazione dal Messico. Tutt’al più, sostiene la maggior parte degli osservatori, la questione sarà utilizzata dal presidente nella campagna elettorale del 2020 per mobilitare i propri sostenitori.

 

Auspici di questo genere sono però semplicistici e forse illusori. Per cominciare, già la decisione di liberare la presidenza dai vincoli costituzionali legati allo stanziamento di fondi di bilancio, anche se bloccata dai giudici, sarebbe di per sé un segnale preoccupante, visto che in oltre due secoli di storia americana nessun presidente ha mai dichiarato lo stato di emergenza per non avere ottenuto dal Congresso il denaro necessario a finanziare la propria agenda politica.

 

Soprattutto, almeno due fattori suggeriscono parecchia cautela nel giudicare la mossa di Trump come una sterile manovra politica. Il primo è la composizione della Corte Suprema, dove la causa sulle facoltà del presidente potrebbe alla fine approdare. Con la nomina di due giudici da parte di Trump in questi anni, il più altro tribunale degli Stati Uniti ha oggi una solida maggioranza ultra-conservatrice che potrebbe facilmente accentuare la propensione, già evidente negli ultimi due decenni, a emettere sentenze favorevoli all’allargamento dei poteri dell’esecutivo.

 

L’altro elemento da considerare è la deriva autoritaria che il sistema politico americano ha imboccato a partire almeno dall’11 settembre del 2001 e, in virtù della quale, un ulteriore accentramento di poteri senza controllo nelle mani del presidente risulterebbe un’evoluzione quasi logica, tanto più nell’assenza di voci in difesa della democrazia tra la classe politica attuale.

 

L’abbandono dei principi costituzionali non è prerogativa di Trump, ma è stata una costante e un affare bipartisan in questi anni, con le amministrazioni Bush jr. e Obama che hanno rivendicato poteri arbitrari e quasi assoluti, spesso con la giustificazione della lotta al terrorismo, e che vanno dalla dichiarazione di guerre senza l’autorizzazione del Congresso alle detenzioni indefinite di sospettati mai incriminati né sentenziati, dalla sorveglianza di massa della popolazione agli assassini “extragiudiziari” di presunti terroristi.

 

Anche il fatto che al confine con il Messico non esista alcuna reale emergenza, come sostiene invece Trump, potrebbe non essere sufficiente a impedire l’assunzione di poteri straordinari da parte del presidente. Lo stesso Trump ha sostenuto mercoledì davanti alla stampa il suo “diritto assoluto” di dichiarare lo stato di emergenza nel paese, anche con la motivazione di non avere potuto raggiungere un accordo “con persone irragionevoli”, come i leader democratici al Congresso.

 

Se Trump dovesse decidere di dar seguito alla sua minaccia, infine, i giornali americani hanno rivelato di un dipartimento di Giustizia già al lavoro per convincere i giudici che il presidente ha la facoltà insindacabile di valutare l’esistenza di situazioni di emergenza e che il giudizio di merito non spetta appunto alla magistratura. Questa tesi, malgrado delinei di fatto i contorni di una vera e propria dittatura, potrebbe in fin dei conti trovare accoglimento in qualche tribunale federale e, soprattutto, davanti ai giudici della Corte Suprema.

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