Dopo la sconfitta di proporzioni storiche di martedì sulla Brexit, il primo ministro britannico, Theresa May, è riuscita nella serata di mercoledì a sopravvivere in maniera relativamente agevole a una mozione di sfiducia presentata del Partito Laburista. Se il voto alla Camera dei Comuni ha permesso nuovamente alla May di conservare il suo incarico, nonostante la profondissima crisi in cui il suo governo si dibatte da tempo, il caos politico a Londra appare tutt’altro che risolto e le opzioni percorribili rimaste per l’uscita teorica del Regno Unito dall’Unione Europea ancora estremamente complicate.

 

 

La misura della crisi in atto si è avuta dagli eventi a dir poco insoliti o virtualmente senza precedenti che hanno caratterizzato gli ultimi due giorni di dibattito al Parlamento di Londra. La proposta sui termini della Brexit negoziata tra il gabinetto May e Bruxelles è stata respinta con un margine di voti (230) che, per un governo in carica, è stato il più ampio da circa un secolo a questa parte o, per alcuni giornali e commentatori, di praticamente tutta la storia parlamentare della Gran Bretagna.

 

L’altro aspetto decisamente straordinario è stato lo spettacolo di almeno due gruppi di deputati – quelli del partito unionista nordirlandese DUP, che garantiscono una maggioranza alla May, e i conservatori pro-Brexit – che martedì hanno umiliato il primo ministro, contribuendo a infliggerle una sconfitta colossale sulla questione di gran lunga più importante del suo mandato, e, appena 24 ore più tardi, hanno confermato invece la piena fiducia nel suo esecutivo.

 

La salvezza della May non è in ogni caso da ricondurre a speranze o aspettative nella sua capacità di sciogliere il nodo Brexit. Se per il momento la leader conservatrice può restare a Downing Street è per l’assenza di alternative e, soprattutto, per gli impedimenti legali alla sua rimozione e al panico in determinati ambienti politici di fronte all’ipotesi di un voto anticipato.

 

Theresa May era stata oggetto di un voto di sfiducia non andato a buon fine all’interno del Partito Conservatore lo scorso dicembre, così che, secondo le regole dello stesso partito, può essere certa di conservare la sua leadership per almeno un anno. Escludendo dimissioni o manovre che aggirino lo statuto conservatore, perciò, l’unica strada per deporre la May è un’elezione generale che, però, gli oppositori del primo ministro nel suo partito temono forse più dell’ipotesi di rimanere nell’UE, perché significherebbe quasi certamente l’ingresso del numero uno del “Labour”, Jeremy Corbyn, a Downing Street.

 

Lo stesso Corbyn aveva chiesto il voto di sfiducia di mercoledì, ben sapendo sia che la maggioranza che sostiene il governo May si sarebbe ricompattata sia che l’ala destra del suo partito, che sta conducendo una vera e propria guerra nei confronti della propria leadership, non era per nulla entusiasta della prospettiva di un voto anticipato.

Se gli scenari appaiono ancora fluidi anche nel Partito Laburista, è ragionevole ipotizzare che la mozione di sfiducia presentata da Corbyn sia una manovra politica volta a dimostrare di avere fatto tutto il possibile per rovesciare il gabinetto May e, di fronte all’impossibilità di andare alle urne e governare, utilizzare il proprio capitale politico per promuovere un nuovo accordo con Bruxelles per una Brexit ancora più “soft” o, addirittura, per spingere verso un secondo referendum.

 

L’iniziativa resta comunque per ora nelle mani di Theresa May, la quale ha annunciato che intende consultarsi immediatamente con le varie forze politiche, in modo da verificare se ci siano le basi per una proposta alternativa sull’uscita dall’UE attorno alla quale possa convergere la maggioranza del Parlamento. Il vero problema per la May, o per qualsiasi altro ipotetico leader conservatore, è però legato alle divisioni nel partito sulla Brexit.

 

I conservatori “ribelli” e gli unionisti del DUP vedono con orrore la proposta, contenuta nel testo dell’accordo appena bocciato, di mantenere un regime doganale diverso tra l’Irlanda del Nord e il Regno Unito per un periodo potenzialmente indefinito o, quanto meno, fino a quando non sarà firmato un trattato commerciale tra GB e UE. Questa scappatoia era stata studiata per evitare il ritorno a una frontiera vera e propria tra le provincie settentrionali e la Repubblica d’Irlanda. Un passo indietro simile avrebbe anche compromesso gli accordi di pace che hanno messo fine al conflitto nell’Irlanda del Nord.

 

La cancellazione della soluzione provvisoria sull’Irlanda, nota col nome di “backstop”, comporterebbe di conseguenza un’uscita dall’Unione senza paracadute, ovvero senza un accordo, cosa che la fazione moderata dei conservatori, che include il primo ministro, non è a sua volta disposta ad accettare perché di fatto catastrofica per gli ambienti del business con interessi nel mercato continentale a cui essa fa riferimento.

 

Parallelamente, un’intesa tra la May e i laburisti che auspicano una Brexit “morbida” è impedita dalla richiesta di questi ultimi di mantenere una sorta di unione doganale e commerciale con i paesi UE, mentre i primi intendono adottare politiche indipendenti in questo ambito, così come su cittadinanza e immigrazione, che si adattino cioè in modo flessibile agli interessi del capitalismo britannico.

 

Secondo un emendamento votato a dicembre dalla Camera dei Comuni contro il volere del governo, la May avrà ad ogni modo solo tre giorni lavorativi di tempo per presentare un “piano B” di uscita dalla Brexit. Lunedì, il governo sarà così nuovamente in aula, ma è difficile se non impensabile ipotizzare uno sblocco della situazione in tempi brevi, nonostante i vertici europei si siano già preparati a ricevere il primo ministro a Bruxelles.

 

L’Unione Europea, a giudicare dalle prime reazioni al voto di martedì, non sembra intenzionata comunque a fare concessioni significative alla May. Già a dicembre, quest’ultima aveva rinviato il voto previsto in Parlamento sull’accordo per la Brexit perché certa della sconfitta. Nelle settimane successive i suoi tentativi di ottenere condizioni più favorevoli dall’UE non avevano dato frutti, se non alcune dichiarazioni per un generico appoggio politico o l’impegno a rendere il più breve possibile il periodo di implementazione del cosiddetto “backstop” in Irlanda.

 

Il presidente della Commissione Europea Juncker, da parte sua, ha invitato il Regno Unito a “chiarire le proprie intenzioni il prima possibile”, facendo capire perciò come la palla resti nel campo di Londra e ci sia poca disponibilità a Bruxelles per una rinegoziazione dei termini della Brexit. Ancora più esplicito è stato il presidente del Consiglio Europeo, Donald Tusk, il quale su Twitter ha sostenuto indirettamente che l’unica soluzione all’impasse potrebbe essere la permanenza di Londra nell’Unione.

 

I prossimi giorni mostreranno forse quali sono le scelte possibili per la classe dirigente britannica, siano esse legate a un “piano B” o a un rinvio dell’addio all’UE, fissato per il 29 marzo prossimo. La stessa linea dura dell’Europa sembra peraltro mostrare qualche incrinatura, visto che il pericolo di una Brexit senza accordo rischia di precipitare in una grave crisi economica e sociale non solo il Regno Unito ma anche l’Europa. Se l’intesa già sottoscritta con la May e appena bocciata resta in teoria l’unica sul tavolo, non sono da escludere allora passi indietro, come ha lasciato intendere martedì ad esempio il ministro degli Esteri tedesco, Heiko Maas, per il quale nell’immediato futuro “potrebbero avere luogo ulteriori negoziati” con il governo Londra.

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