Una nuova serie di attacchi missilistici condotti da Israele tra domenica e lunedì in territorio siriano rischia di infiammare ancora una volta il conflitto nel paese e di allargare pericolosamente il fronte di guerra in Medio Oriente. Jet e missili israeliani hanno infatti colpito obiettivi presumibilmente legati alla presenza militare dell’Iran in Siria, ma più che nella presunta minaccia di quest’ultima per lo stato ebraico, i veri motivi dell’operazione vanno ricercati nelle dinamiche politiche interne a Tel Aviv e, ancor più, in quelle strategiche regionali prodotte dalla decisione dell’amministrazione Trump sul relativo disimpegno americano dal conflitto in corso.

 

 

Il primo episodio è avvenuto domenica con almeno quattro F-16 israeliani protagonisti di un bombardamento contro l’aeroporto internazionale di Damasco, dove sarebbero stati colpiti depositi di armi, una struttura militare e dell’intelligence, nonché un campo di addestramento. Il blitz, hanno spiegato i vertici militari israeliani, sarebbe stato deciso in risposta al lancio di un missile dal territorio siriano e diretto verso la zona delle alture del Golan occupata illegalmente da Israele.

 

L’ordigno partito dalla Siria è stato neutralizzato dal sistema difensivo israeliano “Iron Dome” o “Cupola di Ferro”. Dopo la prima incursione sui bersagli situati presso l’aeroporto di Damasco, gli aerei da guerra di Israele avrebbero anche distrutto un sistema anti-missilistico siriano Pantsir S-1, di fabbricazione russa. Secondo Tel Aviv, questa seconda operazione è stata decisa dopo che la Siria ha scelto di ignorare l’avvertimento a evitare di abbattere i missili israeliani in arrivo, cioè ad astenersi dal difendere il proprio territorio da un attacco e da un’invasione illegale del proprio spazio aereo.

 

L’incursione israeliana di domenica, secondo fonti russe, ha provocato la morte di quattro militari siriani e il ferimento di altri sei. La risposta legittima di Damasco all’ennesima aggressione di Israele sarebbe alla base anche della seconda offensiva condotta nelle prime ore di lunedì. In questo caso, gli obiettivi erano alcune postazioni della divisione “Quds”, vale a dire le forze dei Guardiani della Rivoluzione iraniani dispiegate all’estero.

 

La stampa russa e quella siriana hanno parlato di una trentina di missili israeliani abbattuti dalla contraerea siriana sui circa 50 lanciati. Se corrispondente al vero, la percentuale significativa di obiettivi neutralizzati conferma la determinazione del regime di Assad a contrastare le offensive israeliane. Ciò riflette il cambiato atteggiamento di Mosca nei confronti di Tel Aviv dopo l’abbattimento di un jet russo da parte israeliana nel settembre scorso. In seguito a questo evento, il governo di Putin aveva fornito strumenti difensivi più efficaci a Damasco e avvertito Israele che non ci sarebbero più state incursioni relativamente indisturbate nello spazio aereo siriano, anche se dirette contro obiettivi iraniani.

 

In maniera insolita, il governo Netanyahu ha ammesso la responsabilità israeliana negli eventi di domenica e lunedì in Siria. Il primo ministro ha parlato di attacchi contro “le forze iraniane e quelle siriane che consentono l’aggressione di Teheran”. Su queste basi, ha concluso Netanyahu, Israele intende “colpire chiunque cerchi di attaccarci”.

 

Con le stesse parole minacciose si è espresso lunedì anche il presidente israeliano, Reuven Rivlin, il quale ha inoltre richiamato l’attenzione della comunità internazione sulla presunta escalation iraniana in Medio Oriente che minaccerebbe la stabilità della regione. Netanyahu, così come il presidente Rivlin e la grande maggioranza della classe politica e dei vertici militari di Israele, continua a lanciare avvertimenti con toni apocalittici sul pericolo rappresentato dalla Repubblica Islamica, da Hezbollah e dal regime di Assad, nonostante Tel Aviv da anni conduca operazioni militari senza fondamento legale e nella piena impunità sul territorio di un paese sovrano che non ha mai mosso un dito contro Israele se non in funzione difensiva.

 

Lo stesso Netanyahu ha recentemente riconosciuto che Israele ha portato a termine “centinaia” di attacchi aerei e missilistici in Siria a partire dal 2011, principalmente per colpire depositi di armi provenienti dall’Iran e dirette a Hezbollah in Libano. In precedenza, tutte le operazioni militari israeliane erano seguite da un silenzio ambiguo che non confermava né smentiva responsabilità che chiunque nella comunità internazionale sapeva a chi attribuire.

 

La consueta reticenza israeliana era dovuta fondamentalmente alla necessità di evitare imbarazzi a livello ufficiale nel riconoscere operazioni illegali se non palesemente criminali. Il cambiamento di rotta di Netanyahu in queste settimane e la ripetuta ammissione delle recenti incursioni in territorio siriano sono ora invece da ricondurre in particolari a due fattori.

 

Il primo e più importante riflette la strategia israeliana di provocare una reazione militare da parte dell’Iran. In precedenza, una possibile ritorsione iraniana appariva più facilmente evitabile vista l’assenza di certezze ufficiali sulle responsabilità di Israele nel colpire interessi della Repubblica Islamica in Siria. Il tentativo del governo israeliano di indurre l’Iran a rispondere alle proprie provocazioni serve a sua volta ad aumentare le pressioni su questo paese, dipingendolo come aggressore e impegnato nel programmare la distruzione dello stato ebraico.

 

Concretamente, l’atteggiamento israeliano punta a spingere gli Stati Uniti verso un confronto diretto con l’Iran e, alla luce dei recenti sviluppi relativi all’impegno americano in Siria, a rallentare o fermare del tutto il ritiro dei soldati USA in questo paese, dove, appunto, Netanyahu vede come possibile conseguenza un rafforzamento della presenza di Teheran immediatamente al di là dei propri confini.

 

Le manovre del governo israeliano rischiano di avere una certa efficacia viste le profonde divisioni esistenti a Washington sulle decisioni di Trump in relazione alla Siria. Non è da escludere anzi che Netanyahu abbia concordato le provocazioni militari di questi giorni con il consigliere per la Sicurezza Nazionale della Casa Bianca, John Bolton, recentemente in visita proprio in Israele. L’ex ambasciatore USA alle Nazioni Unite è considerato uno dei più fermi oppositori del ritiro USA dalla Siria nell’amministrazione Trump e, nel corso della stessa trasferta in Medio Oriente, aveva di fatto smentito i piani del presidente in questo ambito.

 

Il comportamento di Netanyahu può essere dovuto infine anche ai problemi che sta affrontando sul fronte domestico. Ai primi di aprile si terranno elezioni anticipate che il primo ministro, pur essendo nuovamente favorito, dovrà affrontare in un quadro politico sempre più radicalizzato e con un’accesissima competizione da destra.

 

Non solo, su Netanyahu pende la minaccia di un’incriminazione nel quadro di varie indagini di polizia per corruzione e altri reati. In un clima elettorale di questo genere, è evidente e tutt’altro che inedito il ricorso del primo ministro a provocazioni militari e a una retorica bellicosa diretta contro i nemici del suo paese.

 

Le iniziative israeliane rischiano comunque di aggravare la crisi siriana, dal momento che si inseriscono anche in una congiuntura particolarmente delicata per il paese in guerra. Le scosse prodotte dall’annuncio di Trump dello scorso dicembre sul ritiro del contingente americano si intrecciano o hanno provocato infatti una situazione nuovamente esplosiva, come confermano, tra l’altro, le dispute tra Washington e Ankara sul futuro della Siria nord-orientale a maggioranza curda, la possibile imminente operazione turca oltre il confine meridionale, il consolidamento dei jihadisti legati ad al-Qaeda nella provincia di Idlib, dove è sempre più probabile un’offensiva di Damasco, e i due recenti attentati contro militari americani attribuiti a ciò che resta dello Stato Islamico (ISIS).

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