Dopo avere incassato quella che in molti hanno descritto come una rara vittoria parlamentare sulla Brexit, mercoledì il primo ministro britannico, Theresa May, è tornata a scontrarsi con una realtà decisamente più amara, quando si è vista ancora una volta chiudere ogni spiraglio significativo di trattativa da parte dei vertici europei sulla possibile rinegoziazione del trattato che dovrebbe regolare l’uscita di Londra dall’UE.

 

Il capo dei negoziatori dell’Unione, Michel Barnier, ha insistito sull’impossibilità di riaprire i negoziati con Downing Street, malgrado la premier May abbia apparentemente trovato per la prima volta un accordo con la sua maggioranza in Parlamento per stabilire le modalità della Brexit dal punto di vista di Londra. Per Barnier, il testo dell’accordo già sottoscritto con il governo resta l’unico sul tavolo e le “istituzioni europee” concordano sulla sostanziale impossibilità di fare concessioni che spianino la strada a un via libera della Camera dei Comuni.

 

 

Anche per il presidente della Commissione europea, Jean-Claude Juncker, l’accordo esistente è “il migliore e l’unico possibile” e questa realtà non può essere cambiata “dal dibattito e dalle votazioni di martedì alla Camera dei Comuni”. Juncker ha chiarito anch’egli che l’accordo “non sarà rinegoziato” e, perciò, il recente voto a favore della May non fa che “aumentare il rischio di una Brexit fuori controllo”.

 

Martedì, una ricchissima agenda parlamentare aveva portato all’approvazione di alcuni importanti emendamenti alla proposta di accordo con l’UE della May. Quello più rilevante era stato scritto dal deputato conservatore Graham Brady e ha garantito appunto la convergenza della maggioranza su uno dei nodi centrali della Brexit, ovvero la natura del confine tra la Repubblica d’Irlanda e le provincie nordirlandesi. Il testo approvato prevede la cancellazione del controverso “backstop”, il meccanismo cioè che manterrebbe il Regno Unito in un’unione doganale con l’Europa, così da evitare il ripristino di una frontiera a tutti gli effetti sull’isola d’Irlanda, fino a quando Londra e Bruxelles non sottoscriveranno un trattato che regoli i loro rapporti commerciali o le due parti non troveranno una soluzione più idonea al rompicapo irlandese.

 

Questo provvedimento risulta inaccettabile per l’ala pro-Brexit del Partito Conservatore e gli unionisti nordirlandesi del DUP che garantiscono la sopravvivenza del governo May a Londra, dal momento che minaccia di mantenere il Regno Unito vincolato all’Europa per un periodo indefinito. I loro voti contrari all’accordo sulla Brexit per questa ragione lo scorso 15 gennaio avevano costretto il primo ministro a incassare la più pesante sconfitta parlamentare per un governo britannico da almeno un secolo a questa parte.

 

In sostanza, martedì la May ha ricompattato la sua maggioranza sulla Brexit, ottenendo un mandato relativamente chiaro sull’uscita dall’UE, ma l’emendamento approvato implica una rinegoziazione dell’accordo con i leader europei che questi ultimi non hanno alcuna intenzione di accettare. Con una dichiarazione al limite del patetico in Parlamento, la stessa premier ha salutato una “vittoria” di fatto inutile per poi ammettere che “all’interno dell’Unione esiste poco entusiasmo per un cambiamento [dell’accordo]” e, perciò, “il negoziato sarà tutt’altro che semplice”.

 

I timori della May sono stati confermati mercoledì, ma già pochi minuti dopo il voto del Parlamento di Londra i relativi entusiasmi dei conservatori britannici avevano subito una prevedibile doccia fredda con il rapido susseguirsi di commenti pessimisti rilasciati da vari esponenti delle istituzioni europee. La richiesta di ottenere misure “legalmente vincolanti” che regolino i movimenti di confine in Irlanda secondo quanto voluto dai conservatori pro-Brexit rischia insomma di cadere nel vuoto a Bruxelles.

 

L’altro voto teoricamente favorevole al governo May di martedì ha consistito nella bocciatura di un’istanza presentata questa volta dalla parlamentare della destra del Partito Laburista, Yvette Cooper. Questo emendamento, battuto anche per il voto contrario di 14 deputati laburisti, avrebbe imposto un rinvio alla Brexit se il governo non fosse stato in grado di garantire la ratifica di un accordo sull’uscita dall’UE entro la fine di febbraio.

 

Un’altra votazione ha infine chiarito come ci sia comunque alla Camera dei Comuni una maggioranza contraria alla Brexit senza un accordo con Bruxelles, anche se ragioni di ordine politico hanno impedito una mossa più risoluta del Parlamento per imporre la propria volontà al governo. L’emendamento della conservatrice Caroline Spelman ha così stabilito che il Regno Unito non potrà uscire dall’Unione Europea senza un’intesa con quest’ultima, ma la misura non ha potere di legge e potrà servire solo da elemento di pressione sull’esecutivo.

 

Che le distanze tra Londra e Bruxelles restino abissali lo ha confermato un’altra dichiarazione di un portavoce dell’UE, poi ribadita dal responsabile per la Brexit del Parlamento UE Guy Verhofstadt e da altri ancora, dopo la chiusura della seduta di martedì al Parlamento britannico. A loro dire, l’Unione potrebbe al massimo considerare modifiche alle “dichiarazioni politiche” annesse all’accordo già sottoscritto con la May che riguardano questioni legate ai futuri rapporti bilaterali. L’Unione Europea sarebbe disposta cioè a venire parzialmente incontro al primo ministro se ci fossero spiragli sull’ipotesi di mantenere il Regno Unito nell’unione doganale e di garantire la libera circolazione delle persone. La May, tuttavia, ha sempre respinto entrambe le opzioni per non creare ulteriori frizioni con la fazione pro-Brexit del suo partito.

 

Theresa May è dunque riuscita soltanto a guadagnare tempo sul fronte domestico, ma quando porterà in Parlamento l’eventuale nuovo accordo con Bruxelles il rischio di un altro voto contrario sarà con ogni probabilità altissimo e, in caso di sconfitta, il caos e la crisi politica già in atto da tempo a Londra finiranno per aggravarsi ancora di più.

 

In parallelo alle discussioni con i leader europei a Bruxelles, mercoledì la May ha incontrato anche il numero uno del “Labour”, Jeremy Corbyn, con il quale aveva avuto in precedenza un acceso scambio di battute in Parlamento. Il leader laburista ha fatto un’inversione di rotta in questi giorni, poiché aveva a lungo sostenuto che una qualsiasi trattativa con il capo del governo era impossibile senza una decisione ufficiale di escludere l’ipotesi di uscita dall’UE senza accordo.

 

Costretto a destreggiarsi tra le profonde divisioni interne anche al suo partito, Corbyn ha però acconsentito a vedere la premier. La sua insistenza nello scartare una Brexit senza accordo – o “hard Brexit” – non fa intravedere comunque alcuna soluzione di intesa, visto che, com’è ovvio, la May è esposta alle pressioni di coloro che nel suo partito vedono invece con favore un’opzione di questo genere.

 

In questo scenario quasi inestricabile, il calcolo della May sembra essere quello di poter convincere sia i favorevoli sia i contrari alla Brexit a sostenere l’accordo con l’UE che presenterà alla fine in Parlamento. Contando anche sui tempi sempre più ristretti per rispettare la data di uscita dall’Unione, stabilita per il 29 marzo prossimo, nella più ottimistica delle ipotesi i primi potrebbero essere persuasi ad appoggiare la soluzione del governo per il timore di lasciare l’UE senza un accordo, mentre i secondi per evitare uno slittamento se non addirittura un secondo referendum che finisca per cancellare del tutto la Brexit.

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