Le cambiate priorità strategiche degli Stati Uniti sono alla base della recente decisione dell’amministrazione Trump di uscire dal Trattato sulle Forze Nucleari Intermedie (INF), sottoscritto nel 1987 con il governo dell’allora Unione Sovietica. La notifica della cancellazione di fatto dell’accordo è stata data dal segretario di Stato USA, Mike Pompeo, qualche giorno fa, ma già lo scorso mese di ottobre l’iniziativa era stata annunciata in un discorso pubblico dallo stesso presidente.

 

 

Ufficialmente, l’abbandono dell’INF è la conseguenza della continua violazione di esso da parte della Russia, accusata da Washington di avere prodotto e testato il missile da crociera 9M729 (SSC-8 per gli USA), lanciabile da terra e con una gittata compresa tra i 500 e i 5.500 chilometri, ovvero la distanza proibita dal trattato stesso.

 

Mosca, da parte sua, continua a negare che questo ordigno abbia le caratteristiche bandite dall’INF e ha più volte invitato esperti, giornalisti ed esponenti di governo – americani e non solo – a ispezionare i propri missili. Gli Stati Uniti hanno però sempre declinato queste offerte, disertando da ultimo anche un recente evento preparato dal Cremlino durante il quale i missili 9M729 sono stati presentati alla stampa internazionale.

 

Al di là delle responsabilità reali o presunte della Russia, le ragioni del ritiro americano dall’INF non hanno nulla a che vedere con le eventuali violazioni del trattato da parte di questo paese. A dimostrarlo basterebbe l’atteggiamento tenuto finora da Washington. La Casa Bianca ha quasi sempre respinto i negoziati proposti da Mosca per rivedere il trattato o per discutere possibili inadempienze e perplessità dei firmatari. Quando, invece, ha acconsentito a parlare con la controparte russa, com’è avvenuto lo scorso gennaio a Ginevra, lo ha fatto partendo da un punto fermo inaccettabile per Mosca, cioè la richiesta di distruzione dei missili oggetto della discordia.

 

Il carattere unilaterale delle posizioni americane è testimoniato anche dal fatto che Washington non ha mai dato riscontro alle preoccupazioni russe sulle possibili violazioni dell’INF da parte americana. Il Cremlino sospetta ad esempio da tempo che i sistemi di lancio verticali Mk-41, installati in Romania e a breve in Polonia, possano essere utilizzati per missili da crociera con un raggio proibito dal trattato. Nel fine settimana, inoltre, il ministero della Difesa russo ha diffuso immagini satellitari di un sito di costruzione del colosso militare Raytheon Corporation in Arizona nel quale, secondo Mosca, verrebbero prodotti missili a medio e corto raggio banditi dall’INF.

 

Dopo avere preso atto della notifica degli Stati Uniti, che causerà l’uscita ufficiale dall’INF tra sei mesi, il presidente russo Putin ha annunciato una risposta “simmetrica”, sospendendo anche il suo paese dalla partecipazione al trattato. Il Cremlino ha così ordinato ai vertici militari russi di avviare un programma di sviluppo di missili a medio raggio lanciati da terra. Anche a Mosca, d’altra parte, le riserve sull’INF non sono mai mancate, se non altro per il numero molto maggiore di missili distrutti in epoca sovietica rispetto agli USA, ma l’attitudine è sempre stata quella di cercare una revisione o un adeguamento del trattato alla nuova realtà mondiale.

 

A un livello immediato, la decisione di boicottare l’INF risponde alla tendenza dell’amministrazione Trump a rottamare trattati e accordi internazionali che sono visti come una restrizione al perseguimento degli interessi americani. Nello specifico, il Trattato sulle Forze Intermedie costituisce ormai un vincolo inaccettabile per la classe dirigente USA nell’ottica della formulazione e dell’implementazione di un’agenda strategica diretta sempre più al contenimento di potenze in grado di minacciare la superiorità militare e, in ultima analisi, economica di Washington sul piano globale.

 

Più precisamente, dovendo sottostare all’INF, gli Stati Uniti si ritrovano a non potere rispondere allo sviluppo di missili intermedi da parte di paesi come Cina, Iran o Corea del Nord che non sono vincolati ad accordi di nessun genere. Soprattutto la Cina è al centro delle manovre USA sull’INF, dal momento che quest’ultimo accordo impedisce a Washington di dispiegare tutte le proprie potenzialità militari per accerchiare la seconda potenza economica del pianeta e ostacolare il consolidamento, da parte di Pechino, di un apparato difensivo diretto contro la minaccia americana nel continente asiatico e nell’area del Pacifico.

 

In questa prospettiva, appare evidente come l’addio all’INF abbia a che fare non tanto con le presunte violazioni di esso della Russia quanto con le crescenti preoccupazioni per l’emergere della Cina come principale rivale sul piano internazionale e, a sua volta, con il declino della posizione degli Stati Uniti, per invertire il quale non resta a Washington che dare impulso a un nuovo processo di militarizzazione a tutto campo.

 

Sia a causa delle tensioni con Mosca sia per le implicazioni cinesi, quasi tutti i commentatori hanno messo in guardia dalla possibilità che la decisione della Casa Bianca possa innescare una nuova corsa agli armamenti. Non solo, la fine imminente dell’INF prospetta la stessa sorte anche per il trattato “nuovo START” in scadenza nel 2021, firmato da USA e Russia nel 2011 per limitare le testate nucleari strategiche e nel recente passato già al centro delle critiche di Trump.

 

La fine dell’INF manda un segnale estremamente preoccupante all’Europa, visto che per tre decenni l’accordo ha rappresentato un caposaldo della sicurezza del vecchio continente, avendo all’epoca sbloccato lo stallo e poi eliminato la minaccia del posizionamento di missili nucleari americani puntati contro l’Unione Sovietica e, in seguito, la Russia.

 

Con i nuovi scenari che si prospettano, per quanto riguarda la rivalità Washington-Mosca è chiaro il rischio che l’Europa torni a essere un terreno di scontro e, inevitabilmente, la prima vittima di uno scontro nucleare tra le due potenze. Non a caso, perciò, le reazioni allarmate dei leader europei dopo l’anticipazione della notizia dell’uscita dall’INF lo scorso autunno sono state nuovamente espresse in questi giorni. La responsabile della politica estera UE, Federica Mogherini, ha ad esempio affermato che l’Europa “non vuole tornare a essere il luogo dove si confrontano le altre superpotenze”.

 

Viste queste legittime apprensioni, che verranno con ogni probabilità manifestate anche dai governi di paesi asiatici nei quali Washington vorrebbe in teoria posizionare sistemi missilistici intermedi diretti contro la Cina, in molti ritengono che a livello concreto la morte dell’INF potrebbe determinare, almeno nel medio periodo, pochi cambiamenti sul fronte degli equilibri militari. Secondo questa interpretazione, le necessità strategiche americane continueranno ancora a lungo a essere soddisfatte in larga misura dai missili lanciati dal mare e dall’aria, non coperti dall’INF.

 

Questa tesi resta tutta da verificare, ma anche con un sostanziale stallo negli equilibri determinati dai missili intermedi lanciati da terra, la recente mossa di Washington avrà comunque un peso decisivo. Essa rappresenta infatti una spallata al sistema condiviso di controllo degli armamenti e minaccia di aprire la strada a una nuova proliferazione che, con l’aumentare delle tensioni tra USA, Russia e Cina, molto difficilmente potrà essere frenata con una nuova struttura internazionale per la quale, soprattutto a Washington, non sembra esserci a tutt’oggi il minimo interesse.

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