Sotto il sole impietoso di Miami, al cospetto di un pubblico di origine latina residente in Florida, ovvero ogni avanzo di ogni dittatura e di fuggiaschi di ogni democrazia, il presidente statunitense, Donald Trump, ha pronunciato un discorso apparso come una chiamata alle armi all’ultra conservatorismo americano.

 

Dopo aver omaggiato i portatori di voti locali, i senatori della Florida Marco Rubio e Rick Scott, il congressista Mario Díaz-Balart, l’ambasciatore presso l’OSA Carlos Trujillos e il suo consigliere per la sicurezza nazionale, John Bolton, Trump si è lanciato in una intemerata contro i paesi progressisti latinoamericani.

 

 

Per accarezzare la belva seduta in platea, il Presidente non ha lesinato nel toccare le corde dell’isteria anticomunista dei reduci. In 30 minuti di discorso ha citato 29 volte il socialismo e sei volte il comunismo come nemici giurati. Nemmeno durante la Guerra Fredda la retorica ideologica bellicista degli USA era arrivata a questo livello. Quanto al Venezuela, piatto forte del menù dell'adunata, secondo Trump (ovvero secondo Rubio che gli scrive cosa dire) il governo venezuelano si tiene in piedi solo grazie all’aiuto di Cuba. Dimenticando che un anno fa diceva esattamente il contrario, ovvero che Cuba si tiene in piedi solo grazie all’aiuto venezuelano. Devono avergli invertito i fogli.

 

Nel suo discorso Trump ha ammonito le forze armate venezuelane - “devono scegliere adesso da che parte stare” - minacciandole, nel caso restino fedeli a Maduro, di “perdere tutto quello che hanno”. Ma a poco serve l’idea di utilizzare il grimaldello delle Forze Armate nei confronti dei governi di Venezuela, Nicaragua o Cuba, perché parte dell’impianto sistemico sul quale le vittorie della sinistra continentale si sono edificate e consolidate nasce proprio dell’integrazione costante tra Forze Armate e popolazione civile. E’ punto fondamentale dell’identità progressista latinoamericana che rappresenta una inversione a 360 gradi della vecchia concezione che vedeva la contrapposizione tra repressione e aneliti di liberà e divideva la popolazione tra controllori e controllati.

 

Insomma Trump ha indicato nel muro con il Messico e nei colpi di stato contro Venezuela, Nicaragua, Bolivia e Cuba, la sua linea politica per l’America Latina. Sembra voler recuperare e addirittura superare Reagan, senza però essere capace di conquistare empaticamente il suo stesso paese. Ma la guerra ideologica contro un blocco continentale che da circa venti anni ha imboccato un percorso di autonomia e di integrazione regionale, lasciando il Washington Consensus alla memoria della fine del secolo scorso, è oggi più difficile di quanto pensano le teste d’uovo della Casa Bianca.

 

Le politiche sociali condotte dai governi di sinistra nel continente hanno portato decine e decine di milioni di persone fuori dalla povertà assoluta, permettendone l’accesso alle risorse dei rispettivi paesi e rendendole così soggetto di diritti sociali e protagonista politico. Le ripetute prove elettorali che i governi progressisti hanno superato e il consenso ampio di cui godono dopo circa un ventennio di governo - sebbene la congiuntura sia certamente delicata - indicano come la sinistra sia tutt’altro che minoritaria e affatto doma, disponendo di un collante ideale e programmatico di notevole valore.

 

Il discorso di Trump non deve essere però solo ricondotto ad un comizio tra i fedeli; assume, per certi aspetti, le sembianze di una dottrina di sicurezza nazionale che chiude ogni spiraglio al confronto tra paesi politicamente diversi - ma non per questo necessariamente nemici - e riposiziona la Dottrina Monroe al centro delle relazioni con il continente. E' parte del progetto di recupero della centralità del dominio unipolare statunitense.

 

La guerra contro il progresso dichiarata dall’amministrazione Trump ai quattro angoli del pianeta tenta infatti di ricostruire un consenso di massa alla restaurazione imperiale che, per Washington, non è questione ideologica ma di sopravvivenza. La necessità degli USA di rientrare in possesso delle risorse latinoamericane per cercare di turare le falle di una economia in costante declino si somma al bisogno di ristabilire il dominio sul subcontinente per mantenere il livello di leadership politico-militare messo in discussione dagli innumerevoli rovesci in entrambi gli ambiti.

 

La consapevolezza diffusa nelle cancellerie di tutto il mondo è che il gigante a stelle e strisce si trovi nel tunnel di una crisi sistemica di difficilissima soluzione. La drammaticità della crisi sociale statunitense, con il record storico di senza tetto e di povertà assoluta, risulta decisamente in controtendenza rispetto all’American first, slogan con il quale il tycoon ha conquistato la Casa Bianca. La sua unica politica estera è la destabilizzazione permanente in ogni paese strategico per gli equilibri regionali ed un sistema sanzionatorio per limitare la forza dei paesi concorrenti, ma non è certo questa amministrazione che potrà determinare una ripresa degna di nota e di livello prospettico.

 

Nello specifico latinoamericano, la Casa Bianca è ormai ostaggio dei peggiori arnesi dell’ultradestra assetata di sangue ma il servirsi della peggior feccia di origine latina per ricostruire il rapporto con il subcontinente è una pessima idea. Storicamente perdente, più che una linea politica propone conati di odio ideologico di scarsa presa e rischia in prospettiva di rivelarsi controproducente per gli obiettivi di ricolonizzazione a sud di Miami. Riproporre il ruolo di scarpone chiodato delle oligarchie può infatti produrre una inversione di tendenza proprio dove conservatori e reazionari erano riusciti a recuperare con forzature giuridiche e brogli politico-elettorali (ed errori piuttosto evidenti dei progressisti) in paesi di straordinaria importanza come Brasile, Argentina, Cile e Paraguay.

 

Tentare di spacciare benessere e malessere come figli di socialismo o liberismo è una rappresentazione che serve solo a rincuorare i vecchi cuori reazionari ma, per fare solo un esempio, proprio la drammatica crisi economica e sociale in cui versa l’Argentina e l’incapacità statunitense di correre in sostegno del governo di Buenos Aires determinerà la sconfitta di Macrì alle prossime elezioni.

 

Il Venezuela, che avrebbe dovuto essere il trampolino di lancio di questa nuova ingerenza, non pare rispettare tempi, modi e destino finale dell’operazione. Guaidò continua ad essere l'uomo meno influente di tutto il Venezuela e, al momento, più che un imbarazzante presidente si conferma un imbarazzato profugo nell'ambasciata colombiana. Rischia di fare la fine dei golpisti nicaraguensi, che dovevano prendersi Managua ed ora fanno la fila nei supermercati in Costa Rica.

 

Fallito il putch e la chiamata alla comunità internazionale perché riconosca Guaidò, Trump tenta ora di spacciare a livello internazionale la tesi dell’invio degli aiuti umanitari, ma non inganna nessuno. E’ talmente chiaro che si tratterebbe del tentativo di aprire i confini venezuelani e dell’invio di militari travestiti da volontari e di armi e materiale di ogni genere per scatenare una guerra civile, che né l’Onu, né la Croce Rossa Internazionale, né la Caritas si sono detti disponibili ad intestarsi l’operazione. E il tentativo di generare un incidente militare al confine con la Colombia che possa “giustificare” l’intervento diretto o per procura appare di difficile realizzazione, visto che, in Venezuela, nessun dorme.

 

L'opzione dell'aggressione militare resta valida ma ogni giorno che passa vede aumentare le difficoltà. Non a caso ha già ricevuto lo stop del Congresso ad un’eventuale ricorso all’intervento diretto e l’iniziativa di India, Russia, Cina e Cuba a sostegno dell’economia venezuelana sembra poter ridurre concretamente anche l’efficacia delle misure di strangolamento economico della patria di Bolivar. La stessa UE si è detta assolutamente contraria e contare solo su Colombia e Brasile non pare gran cosa.

 

La sfida lanciata all’insieme dei paesi progressisti, alla fine, sembra più un modo di spostare ulteriormente l’asse dell’intervento futuro per non dover rispondere del mancato raggiungimento dell’obiettivo attuale.

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